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L’importanza di prendersi cura dei curanti

Gli operatori sanitari sono tra le categorie più a rischio di logoramento psicofisico
/ 25/03/2024
Maria Grazia Buletti

«Lo scopo principale degli operatori sanitari è migliorare la salute delle persone, ma pure loro possono soffrire problemi a causa del loro lavoro». Da questa considerazione nasce la nuova guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) votata a rafforzare le misure atte a mettere «più in sicurezza gli operatori della sanità». Si parte dalla classica definizione di burnout come «sindrome di logoramento psicofisico caratterizzato dalla presenza di tre elementi principali: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e sensazione di ridotta efficienza personale». Secondo l’OMS «le professioni d’aiuto, tra cui quella infermieristica, rientrano tra le categorie lavorative più a rischio di burnout e di abbandono professionale». D’altro canto, le sfide maggiori del sistema sanitario svizzero odierno si possono sintetizzare con il garantire il ricambio del personale ed evitare l’abbandono da parte di quelli in servizio o in formazione.

È quanto emerge dallo studio SCOHPICA (Swiss Cohort of Health Professionals and Informal Caregivers), un progetto concernente tutto il Paese, realizzato dal Centro universitario di medicina generale e sanità pubblica di Losanna (Unisanté), dalla Scuola di cure infermieristiche losannese (La Source) e dall’ospedale universitario vodese (CHUV), con l’obiettivo di capire meglio i percorsi dei professionisti della salute proprio per evitare che questi abbandonino il loro mestiere. Realizzato dal 2022 al 2023 nelle tre regioni linguistiche, il sondaggio evidenzia tre punti di insoddisfazione dei curanti: il carico di lavoro, le risorse a loro disposizione e la capacità di poter influenzare il modo di lavorare. Le maggiori critiche riguardano gli orari di lavoro estenuanti e il conseguente difficile equilibrio fra vita privata e una professione già di per sé molto pregnante anche dal profilo emotivo. Ne emerge che, se in futuro le condizioni di lavoro non dovessero cambiare, il 13 per cento non resterà nella professione nei prossimi mesi. La percentuale sale al 18,5 per cento per chi è attivo professionalmente da più tempo (anzianità di servizio tra 5 e 10 anni), mentre un quarto degli interpellati deplora il non poter mettere a frutto l’esperienza acquisita nella formazione pratica, e il 16,5 per cento non si ritiene abbastanza preparato alla realtà professionale. Anche se il livello di benessere (da soddisfacente a molto soddisfacente) si aggira attorno a un confortante 80 per cento, non si possono negare gli elementi emersi dal 20 per cento restante.

La ricerca conclude con i «principali punti positivi» sui quali poggiare le fondamenta di un cambiamento del paradigma votato a frenare l’emorragia di curanti da una professione oggettivamente tanto bella quanto difficile, nella quale la mancanza di personale si sta facendo già sentire da tempo (ben prima dell’avvento del Covid-19). Una carenza difficilmente colmabile nell’immediato a causa delle specifiche competenze non facilmente rimpiazzabili in breve tempo. Secondo lo studio bisogna partire da ciò che funziona: «La possibilità di sviluppo, la coesione di squadra e la consapevolezza di esercitare un lavoro che ha un senso». Per avere un’interpretazione, e soprattutto una valutazione delle conseguenze di questa situazione non certo improvvisa, abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta Nadine Maetzler, partendo dalle possibili misure di intervento di prevenzione dell’insorgenza di burnout nelle professioni sanitarie e nelle cure infermieristiche: «L’intervento va modulato su più livelli: in ambito personale è utile equilibrare le proprie esigenze con le risorse a disposizione; l’organizzazione del lavoro risulta prioritaria per il datore di lavoro, offrendo altresì un ascolto al collaboratore per dare spazio alle sue proposte, idee e domande, e favorendo una buona riuscita del lavoro di team. Inoltre, uno scambio costruttivo nell’équipe fornisce un vantaggio notevole sul risultato finale». La specialista parla di «sdoganare cultura e analisi dell’errore» per «dare la possibilità di dichiarare eventuali errori, strutturando un percorso di analisi votata al miglioramento attivo e concertato del lavoro».

Nella lettura correlata agli strascichi della pandemia Covid-19, Maetzler evidenzia l’atmosfera sociale solidale che si era venuta a creare verso i curanti. Un atteggiamento che oggi pare non avere più terreno fertile, lasciandoli in una sorta di solitudine e disorientamento: «Durante la pandemia gli infermieri lavoravano in condizioni mai viste prima: turni di lavoro stravolti e di dodici ore, team mescolati per le esigenze di emergenza e una presa a carico del paziente totalmente diversa e nuova». Però a sostenerli c’erano il consenso e l’ammirazione di una popolazione mondiale: «Il lavoro era sì duro ed estenuante, ancor più a livello psicologico, ma come un ciclista che trova la forza di scalare la montagna perché è incitato e sostenuto dal pubblico, anche i sanitari sentivano di trarre grande forza e motivazione dalla gente che ne riconosceva fatiche e impegno». Gratitudine che oggi si è affievolita: «Arrivati in cima alla montagna, oggi nessuno li guarda più e “quella medaglia” che tanto si sono meritati è svanita». Questa situazione delle dinamiche dei curanti catapultati a lavorare in condizioni difficili nei reparti chiusi dove però c’era unione e si percepiva il sostegno esterno, è ben descritta nel libro dello psichiatra Luca Genoni (Emergenza Covid-19, servizio psicologico al fronte). D’altro canto, la nostra interlocutrice riconosce alcuni punti deboli già noti del sistema: «Ad esempio, cominciavano ad aumentare i posti letto già dall’inizio degli anni 2000 (quando anch’io lavoravo ancora in clinica) mentre il personale restava lo stesso. Oggi bisogna contenere i costi e il personale tende a diminuire: questa tendenza, già nota una ventina di anni fa, potrebbe essere uno dei problemi, insieme a più burocrazia e maggiore complessità delle cure, così come sono pure mutate le esigenze di pazienti e famigliari: tutto è permeato da differenti sollecitazioni che possono generare sovraccarico e frustrazione».

Quella «maggiore protezione degli operatori sanitari» tanto auspicata dall’OMS potrebbe essere declinata nell’offrire loro opportunità di supporto psicoterapico e di supervisione costante: «Uno spazio per il singolo e per il team, nel quale riflettere in consapevolezza sul lavoro e dinamiche dei processi lavorativi sarebbe uno strumento efficace da implementare, in un investimento di tempo che non sarebbe tempo perso».

Una volta qualcuno ha detto a chi scrive: «Curati di chi si cura di te». Oggi sulla «cura» che bisogna riservare ai «curanti» lasciamo un’ultima riflessione a Jean Watson, infermiera americana nota soprattutto per la sua teoria dell’assistenza umana: «Noi curanti teniamo un’altra vita nelle nostre mani. Ci ricorda che ogni nostro gesto non tocca un corpo, tocca l’intero essere umano. E in ogni gesto, anche il più banale come quello di preservare l’intimità, è racchiuso il grande potere di donare rispetto per la dignità per l’altro. È una tra le più delicate e meravigliose opportunità che abbiamo nel nostro aver cura di chi si affida a noi».