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Attaccare bottone con gli sconosciuti fa bene

Psicologia ◆ In un mondo in cui prevale la diffidenza se non la paura dell’altro alcuni studi mettono in luce quanto avviare una conversazione con un estraneo sia salutare sotto molti punti di vista
/ 25/03/2024
Alessandra Ostini Sutto

«There are no strangers here, only friends you haven’t yet met» (Qui non ci sono estranei, solo amici che non hai ancora incontrato), scriveva il poeta William Butler Yeats; una frase che andrebbe tenuta presente alla luce del fatto che non mancano le ricerche svolte in tempi recenti a dimostrazione degli effetti benefici del parlare con gli estranei.

«In una serie di studi condotti negli ultimi anni – in cui alle persone è stato chiesto di parlare liberamente con estranei sui mezzi pubblici, nelle sale d’attesa o nei bar – gli psicologi hanno scoperto che il semplice atto di chiacchierare con uno sconosciuto può farci sentire più felici e più sani, meno soli e più connessi ai luoghi in cui viviamo, può farci trovare affinità e comprensione e scoprire che le diversità sono molte meno di quelle che pensiamo», spiega Sonia Dal-Ben, psicologa e psicoterapeuta a orientamento cognitivo con studio a Giubiasco.

Che si tratti di «chiacchiere da bar» o scambi di opinione sul treno o dal dottore, una ricerca dell’Università del Sussex prova come questi contatti poco profondi ci aiutino ad aumentare il nostro benessere sociale ed emozionale, rivelandosi quindi un’esperienza ben più soddisfacente del silenzio e della solitudine. «Chiacchierare con gli estranei permettere di riconoscersi in quanto essere umano visto e riconosciuto», ha spiegato al magazine «Quartz» Gillian Sandstrom, principale autrice dello studio, nonché Senior lecturer in Psychology of kindness all’University of Sussex. Sul motivo per cui poi, nella realtà dei fatti, tendiamo piuttosto a evitare queste casuali conversazioni hanno indagato Juliana Schroeder e Nicholas Epley, docenti rispettivamente dell’Università della California e dell’Università di Chicago, giungendo alla conclusione che si tratterebbe di un errore di valutazione collettivo: vedendo le persone che ci circondano in silenzio, siamo portati a pensare che non abbiano voglia di scambiare qualche parola. Inoltre, tendiamo a far prevalere gli aspetti negativi, come l’eventuale mancanza di argomenti comuni, la paura di essere giudicati male o il timore di dare fastidio. Come il precedente, anche lo studio condotto dai due psicologi ha dimostrato che chi si butta in una conversazione con una persona non conosciuta – come pure chi viene coinvolto in una conversazione – finisce con il sentirsi più appagato rispetto a chi non lo fa.

In un libro del 2021, The Power of Strangers: The Benefits of Connecting in a Suspicious World (Il potere degli estranei: i vantaggi di connettersi in un mondo diffidente), Joe Keohane, ex editore della rivista «Esquire», svela come le interazioni fugaci di cui stiamo parlando rappresentassero un tempo addirittura uno strumento di sopravvivenza, oltre ad alleviare, come detto, solitudine e isolamento e ad aumentare lo sviluppo cognitivo. «Nel libro citato, l’autore, tra le altre cose, fa un excursus storico – afferma Sonia Dal-Ben – e ricorda come nelle comunità tribali l’estraneo fosse una risorsa. Attraverso i documenti si scopre, infatti, che molto prima che le bande tribali si facessero la guerra, e per un periodo di tempo ben più lungo, esse “facevano la pace”, intenzionalmente, e non perché fosse facile o comodo, bensì perché vivendo di scambio e dialogo la comunità traeva giovamento e profitto. Tradizioni e religioni sono nate attraverso il rapporto e la convivenza pacifica con gli estranei, atteggiamento che oggi si è purtroppo perso, a causa di molteplici fattori tra cui le guerre, con il conseguente aumento della paura del diverso e del razzismo. Keohane esamina questo argomento con metodo scientifico e dimostra che in realtà quando entriamo in contatto con gli estranei, ci piace, lo apprezziamo e vogliamo farlo di nuovo».

Il rapporto con chi ci è sconosciuto, nella quotidianità, è caratterizzato da una certa ambivalenza tra la diffidenza che tendenzialmente ci suscita e gli effetti benefici che l’interazione con un estraneo ci procura, come fin qui visto. «Per spiegare questa apparente ambivalenza possiamo partire da quella che in psicologia si definisce “familiarità”, ovvero la “confidenza” verso un volto che diventa pian piano riconoscibile e quindi famigliare in quanto entrato nella nostra routine. Le persone che siamo abituati a vedere (anche solo virtualmente), suscitano un senso di conforto, soprattutto se con esse abbiamo un buon rapporto – spiega la psicologa – d’altra parte, l’estraneo tende a suscitare un senso di insicurezza legato appunto alla “non familiarità” e viene pertanto associato a sentimenti di incertezza e paura in quanto per noi non prevedibile».

A ciò si aggiunge il condizionamento culturale secondo cui, perlomeno in buona parte dell’Occidente, ai bambini si insegna che «parlare con gli sconosciuti» è da evitare in quanto pericoloso. «Un insegnamento che portiamo con noi quando cresciamo, come tutti gli schemi cognitivi che impariamo da bambini e che a volte diventano disfunzionali proprio perché non più adatti alla nostra vita attuale – continua Sonia Dal-Ben – paradossalmente rispetto a questi motivi, con un estraneo, in determinate situazioni, prime tra tutte i momenti di relax (vacanze, svago, hobby), ci possiamo sentire più liberi, poiché non essendo reciprocamente familiari non ne temiamo il giudizio, né ci preoccupiamo di deluderlo o di risultare inadeguati».

Il «coraggio» di avviare una conversazione con uno sconosciuto ci ripagherà quindi con il vantaggio di porci di fronte a un interlocutore che, non conoscendo la nostra biografia, non ci farà sentire in difetto se le nostre parole non si accorderanno al nostro passato; semplicemente accoglierà la nostra realtà così come gliela presentiamo. Fatto che ci può portare a svelare una parte di noi che a chi conosciamo da più tempo tendiamo a tenere nascosta, magari proprio perché non coinciderebbe con l’immagine che questa persona si è costruita di noi nel tempo. In questo modo, un fugace scambio di parole con uno sconosciuto può risultare gratificante e, in una certa misura, pure più veritiero rispetto a quello che può avvenire con un amico di lungo corso.

Quanto appena affermato può spiegare il motivo per cui alcune persone reputino più facile confidare, per esempio, al 143 – Telefono Amico le proprie preoccupazioni o fragilità, piuttosto che ad un amico o famigliare. Questo tipo di servizio non è infatti destinato solo a chi si trova in un momento di crisi acuta, ma anche a chi vive problemi quotidiani più o meno complessi, che troverà uno spazio per i propri pensieri e sentimenti, privo dal giudizio; presupposto che consente di «lasciarsi andare» senza filtri. Un’altra, seppur diversa, occasione per poter essere come veramente si è nel «qui e ora» sono i viaggi, durante i quali si possono instaurare delle ben specifiche relazioni. Brevi, intense, e a volte trasformative, le «amicizie di viaggio» nascono dal nulla per poi inevitabilmente lasciarci con la stessa rapidità con cui sono arrivate. I loro vantaggi sono molteplici: oltre a trascorrere del tempo in compagnia, consentono di avere una finestra su un altro contesto o un’altra cultura, di avere qualcuno in più da andare a trovare in giro per il mondo, di godere di un senso di appartenenza grazie al comune piacere per i viaggi o per quel viaggio in particolare, oltre che di aver modo di cambiare idee e prospettive grazie al confronto con una persona che non appartiene al nostro entourage. Anche in questo caso, essendo queste relazioni esenti da idee preesistenti su di noi, saremo liberi di essere esattamente come siamo in quel momento della nostra vita.

I benefici effetti sin qui descritti del rivolgere la parola a persone finora estranee si scontrano però con una situazione, quella odierna, in cui alla «paura dello sconosciuto» di cui si è detto, si aggiunge una tendenza all’individualismo, accresciuta dalla diffusione dei dispositivi digitali. Se ci osservassimo dall’esterno, più che essere aperti a chi ci sta occasionalmente accanto, ci vedremmo concentrati sui nostri smartphone, a mandare velocemente una mail mentre siamo in sala d’attesa, ad ascoltare un vocale mentre siamo sul bus, a leggere un e-book mentre siamo seduti su una panchina del parco. Atteggiamenti che ci impediscono di accorgerci di chi ci sta accanto e che potrebbe apportare qualcosa in più alla nostra giornata.

Una cosa però accomuna i rapporti che possiamo intrattenere con le persone sconosciute e con quelle con cui ci relazioniamo sui social, il fatto cioè che siano entrambi «legami deboli», come li definì negli anni Settanta Mark Granovetter, sociologo della John Hopkins University, in contrapposizione a quelli che abbiamo con chi conosciamo bene e frequentiamo regolarmente. «Legami deboli» in cui – per così dire – ci si sfiora per poco tempo ma quanto basta per sentirsi parte di una collettività più ampia, senza tuttavia che si generino aspettative verso l’altro, come invece accade in un rapporto solido.