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Il lusso che dobbiamo permetterci
Parole verdi – 12 ◆ Con questo articolo si conclude la serie dedicata al nostro rapporto con l’ecologia e la crisi climatica
Francesca Rigotti
«L’ecologismo è un lusso che non possiamo permetterci». Lo pensano in tanti anche se non osano dirlo ad alta voce. O forse non lo pensano nemmeno in maniera così precisa, certo è che fanno passare davanti al rispetto per l’ambiente mille altre esigenze e attività. Questi tanti, persone comuni o, peggio, politici e amministratori, lo relegano infatti tra i bisogni ultimi, quasi fosse un lusso investire intelligenza e risorse per affrontare il problema del riscaldamento climatico determinato da fattori antropici o per limitare l’inquinamento atmosferico, visivo, acustico. C’è sempre qualcosa che è più importante, più urgente, più necessario o più desiderabile. E così i problemi ecologici passano in secondo piano o vengono tamponati con provvedimenti provvisori. E poi un po’ di rumore e di luce in più, che cosa c’è di male. Tengono compagnia e garantiscono sicurezza. Insomma, sembra che provvedimenti che limitino la devastazione che facciamo del pianeta siano, ripeto, un lusso, un surplus.
Ma basta guardare la parola per capire che non è così. Il termine lusso, come quello di lussuria, deriva dall’aggettivo greco loxòs, obliquo, fuori posto, lussato. Il lusso e la lussuria sono lussazioni del modo di vivere, perché designano comportamenti storti e deviati: il primo per quanto concerne il desiderio di vanità e ambizione; il secondo, l’appetito di godimenti carnali.
Assistiamo qui come in molti altri casi a una contraddizione, a un paradosso del nostro modo di vivere e di pensare. Da una parte pensiamo – alcuni, molti pensano – che l’ecologismo sia un lusso nel senso di qualcosa di sovrabbondante, un surplus che non fa parte delle dure necessità: il lavoro, la salute, la sicurezza, quindi mettiamolo in fondo alla lista delle priorità. Dall’altra però l’economia argomenta che produzione e consumo di beni di lusso sono giustificati anzi necessari, soprattutto in tempi di crisi. Per gli economisti le società nelle quali si è verificata una tendenziale sazietà di beni primari devono investire in beni non immediatamente utili quanto desiderabili, per procurare lavoro, domanda e offerta.
Forse questa schizofrenia dipende dal fatto che l’immagine del lusso è cambiata: nei secoli passati il concetto di lusso appariva in diversi contesti in maniera peggiorativa: la filosofia morale e la teologia facevano a gara nel condannare il lusso come «distorsione» dell’anima, lussazione dei sensi, desiderio di vanità e ambizione. Gli antichi conoscevano addirittura leggi particolari che punivano esternazioni eccessive di lusso e ricchezza.
Da quando però l’economia è diventata consumista e mercificata, la rigidità morale verso il lusso (e pure verso la lussuria) è stata pian piano deposta e il lusso è diventato una molla della domanda, del progresso tecnico, dell’aumento di esportazioni, insomma dell’intera prosperità sociale. E ha perso la patina negativa per nobilitarsi e rivelarsi qualcosa di ambito, amato e desiderato.
E dunque: se il lusso lo consideriamo negativamente, anteponendogli la necessità e il bisogno, ebbene l’ecologismo non è un lusso, è una necessità; se il lusso lo valutiamo positivamente come soddisfazione del desiderio, cioè qualcosa di più elevato del semplice bisogno, assorbiamone la componente di nobiltà. E che l’impegno per la difesa dell’ambiente e dell’equilibrio naturale diventi non soltanto necessità e bisogno ma anche desiderio e lusso. Un lusso che ci vogliamo e che ci dobbiamo permettere.