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Le fatiche di Caterina, centenaria di valle

Storie di vita - Con i suoi novantanove anni, è lei la donna più anziana della Val Bedretto, luogo in cui è nata, cresciuta e dove ha vissuto tra chiesa e campi
/ 04/03/2024
Manuela Mazzi testo, Ti-Press / Alessandro Crinari foto

Ancora oggi si contenta di poco, un poco che a suo dire sarebbe il segreto della longevità. Tranne che per alcune necessarie trasferte stagionali, non ha mai lasciato Villa Bedretto dove è cresciuta, si è sposata e tuttora risiede. Qui, a 1358 m di altitudine, Caterina Leonardi, nata Forni, il 7 febbraio ha compiuto il suo novantanovesimo anno di età. A un passo dalla cifra tonda, ci ha accolti nell’antico salottino rivestito di legno massiccio della casa costruita nel 1896, in cui vive da tempi remoti, quando ancora era lei a strattonare le corde delle campane. Per raggiungerlo, attraversiamo tre porte chiuse, com’è d’uso nelle case più a nord, dove è buona regola avere un’anticamera che isoli dal freddo l’abitazione. Fuori, cumuli di neve a bordo carreggiata e la strada ghiacciata confermano i gradi sottozero; per essere più precisi siamo a meno uno, mentre sul piano, a tarda sera, quando rientreremo, se ne registreranno più tredici.

Il salottino, che vanta un campanaccio del 1890 appeso a una parete, è reso ancora più accogliente, se possibile, dai vivaci colori dei fiori ricevuti in dono durante un caloroso viavai di affezionati, non solo del villaggio; tra questi anche il consigliere agli Stati, Fabio Regazzi. Per raggiungere Villa Bedretto, si sa, occorre oltrepassare Airolo e dirigersi verso il Passo della Novena. Non siamo puntuali, il traffico non perdona sulle lunghe distanze. Nemmeno Caterina lo fa: «Siete in ritardo!» ci rimprovera, in dialetto, dopo aver guardato l’orologio di rame appeso alla parete, un regalo di anniversario del matrimonio. Non parliamo correntemente il dialetto da un bel po’, e ci parrebbe sconveniente non sforzarci, anche se ci sentiamo sin da subito in difetto, quasi balbuzienti. E anche un po’ in colpa per la perdita di dimestichezza con la nostra lingua. Forestieri di casa.

La Caterina, durante l’incontro, ci interrogherà anche su alcuni termini della variante locale: indoviniamo – memori di altri tempi – ü destrü (il gabinetto); la liscta (la finestra); e la piraca (la tasca). Non sappiamo cosa sia la giova: «È il coltellino svizzero!», ci spiega.

Ci risolviamo così in una chiacchierata, tra ricordi e curiosità.

Nata in una famiglia numerosa, «eravamo in dieci, ma sei vivi e quattro morti (ndr. deceduti da piccini)», Caterina ha frequentato la scuola in paese, che era composta da otto annualità. Sulla parete a est, è appesa una fotografia in bianco e nero che la ritrae nel mezzo di un folto gruppo di scolari. Tra questi, anche una sorella e un fratello. Lei, la Caterina, in un vestito a grembiule, coi capelli lunghi e raccolti. Un po’ più corti quelli della sorella; rasati e chiari, quelli del giovanotto, che indossa un gilet di lana, e posa in piedi ai margini della classe. La scuola chiuderà poco dopo, negli anni Cinquanta, a memoria della centenaria di Villa, che ricorda ancora quando giocava con i compagni a «guardie e ladri» (lo chiamavano il gioco «dal tolin»), e la slitta, quale regalo di Natale più bello tra quelli ricevuti.

A Zurigo per servire

«Dopo le scuole dell’obbligo sono andata alcune stagioni a Zurigo». Oltre San Gottardo, però, non ci va per imparare il tedesco, come facevano altri, «ancora il tedesco lo parlo poco. Ci andavo per servire; per guadagnare dei soldi. Avevo 18 o 20 anni. Era un ottico, il marito della famiglia tedesca che servivo; vendevano occhiali in Paradeplatz, quasi in centro (ndr. è orgogliosa mentre lo dice), e dietro, in un’altra strada, c’era la casa. Facevo da mangiare e le pulizie. Ma si andava solo d’inverno, perché d’estate avevano bisogno i nostri, mio padre, qui in paese.

«Dopo Zurigo sono andata per famiglie qui in Ticino, a Lugano, sempre per servire e fare la putzfrau. Veniva a prendermi il padrone con l’auto, e mi portava giù». Anche qui si ferma per la stagione fredda, alloggiando nella casa della famiglia che l’assume: «Facevamo tutto a mano, mica come oggi che ci sono le macchine», allude a lavatrice e lavastoviglie, ma probabilmente anche ad altri piccoli elettrodomestici, come l’aspirapolvere, per lasciar capire che le fatiche erano certamente altre; «erano case grandi, con un sacco di scale e le finestre alte da pulire, sa come sono quei casoni…» il pensiero ci porta dritti in una qualsiasi delle tante residenze signorili della Città, dove non è difficile immaginarci una giovane Caterina, mentre si dà da fare con secchielli e stracci, spolverini e saggine. Scope con cui spazzare cinque centimetri per volta le briciole da un enorme tappeto persiano che, rapportato alle dimensioni del salotto in cui ci troviamo, avrebbe potuto ricoprirne almeno due. Va al servizio di famiglie a Lugano per cinque o sei anni, prendendo – se la memoria non la tradisce – circa «120 franchi al mese: ma di quei tempi!», come a dire che in fondo, non era poi neanche una cattiva paga, e infatti ci tiene a dirlo: «Però stavo bene, ho trovato brava gente». Quei 120 franchi li mette via, e non certo per comperarsi frivolezze, «semmai – dice – per prendermi un rastrello nuovo per fare fieno», sorride.

Al di là di Zurigo e Lugano, ha viaggiato poco e niente, non come tanti altri del paese, tra cui diversi suoi parenti: «Mio papà, partiva tutti gli inverni con i suoi fratelli per la Francia, a Épinal, verso Nancy. Ci trascorrevano i mesi freddi. Là facevano i maronatt, mentre mia mamma andava a governare le vacche, su in alto, dove c’era tanta neve, ché fioccava molto più di oggi, una volta. E poi avevo uno zio in America, ma ormai è morto; non avevano mica sempre da mangiare. Sono rimaste due cugine, là. Ogni tanto lui veniva a trovarci; io non ho mai avuto tempo di andare in America con tutto quello che c’era da fare qui. Anche tre zii di mio marito si trovavano in California». Il mare, Caterina, lo ha visto solo da lontano «e in televisione; non si può andare via dal paese per troppo tempo, se hai delle bestie». La città più grande che ha visitato è Milano: «Quando ero a Lugano, mi è capitato di andare a una fiera che era famosa, con una cugina e un’amica, in treno; siamo salite sul Duomo, a guardare giù. Ho una bella foto di quel momento. Per il resto: siamo andate e tornate. E poi sono stata in pellegrinaggio a Lourdes. Ci siamo andati in bus».

Nel mezzo, la guerra

Il periodo della guerra passa quasi inosservato a Villa Bedretto: «Qui non ci siamo accorti quasi di niente; il mangiare non ci è mai mancato, avevamo noi le bestie, forse un po’ il riso e quelle cose lì, ma in quegli anni, mettevamo giù quattro o cinque campi di patate. Oscuravamo giusto le finestre, di notte, con i tendoni».

Non ha mai sentito la paura della guerra: «A regola passavano i militari, ma non si sentivano tanto. Tutto sommato a noi è andata bene. Leggevamo qualche notizia nel giornale, sì, ma non avevamo ancora la radio, per fortuna, così siamo stati quieti: oggi con la televisione soprattutto, ma anche con quei telefonini lì, si sentono troppe brutte notizie. Come la guerra dell’Ucraina e la Russia, e i palestinesi con Israele; può essere che sarà ancora lunga… E poi c’è stato il Covid, che però da noi, si è stati bene: qui, non è arrivato». Non sorprende l’associazione della guerra al virus che ha messo in ginocchio il pianeta, come due sciagure lontane dalla realtà di Villa Bedretto. La gente del paese ha infatti continuato ad andare a lavorare, e a fare le passeggiate nei boschi; il privilegio di chi è abituato all’isolamento geografico più che al distanziamento sociale. Ma torniamo alla storia di Caterina, mentre la stufa a legna scoppietta riscaldandoci la schiena.

Matrimonio in paese

Finite le fatiche da impiegata stagionale, iniziano quelle della vita contadina. Il marito Delio è del paese, lo conosce da sempre. Non c’è spazio per il romanticismo, conta metter su famiglia. Lei ha già 41 anni, lui sei di meno quando si sposano. «Sono un po’ metè» dice ricordando di essere nata Forni e sposata Leonardi; si sente, cioè, un po’ di questa famiglia, un po’ dell’altra. Avranno una figlia nel 1967, e in verità sarà una delle uniche discendenti della stirpe matrilineare, nonostante la numerosa prole avuta dai suoi progenitori. Non sono peraltro l’unica famiglia numerosa del paese: «Ne hanno fatti diciassette, quelli dell’Osteria Bäkar; e quattordici, gli Spizzi. Ne sono ben morti, alcuni, ma sono sempre stati numerosi». In paese gli Orelli avevano anche una panetteria, un ristorante e un negozio. «Qui c’era un sacco di gente, era pieno Ronco, pieno Bedretto, pieno qui, pieno Ossasco; oggi di quella gente sono rimasta io (ndr. la più anziana della valle), due altre qui, e mia sorella; un’altra a Ossasco e una a Bedretto; gli altri se ne sono andati quasi tutti da giovani, o son morti».

I domiciliati sono un centinaio, anche se ora arriva qualche villeggiante «forestiero, del Cantone». Vivere in paese è difficile, non ci sono possibilità di lavoro o minimi servizi. Ormai. Anche se, secondo lei, la recente ristrutturazione dell’Osteria – l’unica rimasta delle tre che c’erano, e che ha riaperto i battenti a dicembre – pare essere venuta molto bene: «L’è propri bèla»… Trasformato in abitazione, è invece l’edificio che conteneva il vecchio teatro di Villa, ex stalla dei cavalli. Dell’albergo di lusso (la Pensione Naret), solo le mura di un tempo.

Fatiche di campagna

«Da sposata, ho preso a lavorare nei campi, a fare il fieno; avevamo tre vacche, qualche manzetta, qualche maiale e le galline. Mi svegliavo alle cinque del mattino per andare in stalla. Per questo sono giovane. Oggi fanno ginnastica e terapie, e quelle cose lì, io facevo ginnastica tirando il rastrello, facendo müdei (le onde), e facendo su i mucchi di fieno. Era dura la campagna, ma mi piaceva. Finito di fare fieno, andavo poi a raccogliere mirtilli da vendere, durante l’intero mese di agosto, fino a tardi». Le giornate di Caterina finiscono sempre verso le sette e trenta, a volte le otto di sera. Ogni tanto raccoglie anche il ginepro selvatico, «un zichinin perché quando facevamo la mazza ne mettevamo un po’ come condimento: facevamo dei buoni salami e salametti».

Non manca il cibo («la domenica era però un lusso mangiare il risotto, era una novità»), ma di certo mancano le comodità: l’elettricità arriverà molti anni dopo, non c’è acqua corrente e men che meno calda, per la luce si usano le lampade a petrolio, i servizi sono esterni, per lavare si va al lavatoio, e per candeggina utilizzano la cenere, per riscaldare si impiegano le pigne di sasso, costruite con la pietra delle cave locali, per non parlare dei danni della neve, come la grande nevicata del ’51 che si porta via molte anime in altri paesi, ma non a Villa: «Qui neanche un gatto è morto», anche se in primavera fu evacuato per sicurezza: genti e bestie dovettero trovare rifugio da conoscenti e parenti di altre località. È una gallina, quella che invece salva Caterina anni dopo, la salva da una sorta di artrite, portandosela in casa e accudendola giorno dopo giorno: «Mi riconosceva; la chiamavo Pulapula».

Processioni e campane

A interrompere il lavoro di Caterina, è l’impegno di sacrestana: «Portavo l’acqua in sacrestia, e servivo il prete. E poi suonavo le tre campane: tutte le domeniche e a mezzogiorno tutti i giorni, che mi trovassi in mezzo ai campi, o altrove, qualsiasi cosa stessi facendo dovevo smettere e scendere per suonarle. Ecco perché mi hanno regalato questo quadro con il campanile». Il dono è del Consiglio parrocchiale, il quadretto di legno con dipinto il campanile «è di un artista tedesco che lavora il legno, qui del paese, il Franz».

La chiesa dei Santi Martiri Maccabei si trova all’entrata di Villa e risalirebbe a prima del Duecento (se ne trova già notizia nel Liber sanctorum mediolani di Goffredo da Bussero, del 1200), se non fosse stata distrutta da una valanga nel 1594, e poi ancora nel 1634, e di nuovo nel 1695. L’attuale ricostruzione risale al 1897, mentre il campanile data 1697. In paese sono rimaste vive ancora alcune tradizioni, come il giro di augurio di Capodanno: «Si va per le case a dire bòn dì e bòn èn», mentre tante altre ormai sono scomparse.

Resta la fede di Caterina, che dice «tutto passa fuorché l’eternità: che cosa ci sia di là non so; uno del paese mi ha detto che mi avrebbe mandato una cartolina, ma deve ancora arrivare adesso».

La giornata di Caterina

Oggi la centenaria di Villa si sveglia la mattina, fa colazione, avvia un pranzo per sé e per la figlia che lavora ad Airolo, e nel pomeriggio, o riposa un po’ gli occhi, seduta su una poltrona imbottita di fronte alla finestra che guarda a est, lato strada e lato chiesa, oppure incrocia le braccia sul tavolo di legno e ci appoggia la fronte per fare una pennichella. La sera è subito qua, e non si perde mai Zerovero sulla RSI e L’eredità: «Il Sanremo ha stancato con quei versi che fanno adesso. E anche il telegiornale: parla solo di guerre e di brutte notizie; ormai salta fuori di tutto, adesso, anche sulla Chiesa, che non è mica bello per i giovani di oggi…», eppure, ricordiamo alla signora Caterina che certe cose accadevano anche un tempo, sebbene non si sapessero: «E infatti le nascondevano; anzi ci rimproverano quando se ne parlava. Qui era severo anche il prete: era un italiano, e dicevano fosse un fascista. Adesso è un filippino».

In chiesa, la Caterina non può più andarci a causa dell’equilibrio instabile cagionato dalla rottura di una caviglia, pochi anni fa. Un movimento maldestro, che le è costato un ricovero di ben quaranta giorni ad Acquarossa, ma che messo a confronto con la sua ottima salute è un nonnulla: «Prendo solo quattro pastigliette – piccole, eh! – per la pressione, e per il resto sto bene». La messa oggi la guarda in televisione, mentre «non mi interessano i film; semmai faccio un po’ di giochi enigmistici, ma solo quelli che so: non mi interessa poi andare a vedere se ho fatto giusto o sbagliato. Mi serve solo per far passare il tempo». Non ha mai amato leggere, giornale a parte. «Prima avevamo il “Giornale del Popolo”, da un pezzo, ora abbiamo “La Regione”, altri no».

Caterina ci confida che rifarebbe tutto esattamente nello stesso modo: «Non sono stata male, tornerei indietro e rivivrei la mia stessa vita, sì».

Ci stiamo per salutare, è ora di cena: «Stasera mangerò caffelatte complé…», intuisce che non capiamo, «…con pane, burro e marmellata».

Signora Caterina, le ultime tre domande. Che ne pensa della moda di mangiare insetti? «I cagnotti no, ma le cavallette sono carine, e a non sapere quello che sto mangiando, le assaggerei; ma non credo valgano tanto quanto un salametto». Che cosa pensa del lupo che è arrivato nelle nostre valli? «Mah, magari c’era già ai tempi, visto che qui abbiamo una valle che chiamiamo la valle dei lupi». E se arrivasse un africano? Come gli descriverebbe, in due parole, Villa Bedretto? «Certo che se glielo spiego in dialetto sarà un po’ difficile che lui comprenda».