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C’era una volta… il clima che cambia

Ecologia e comunicazione - Un’eccessiva semplificazione del linguaggio può portare all’errore scientifico
/ 01/01/2024
Loris Fedele

Come si può raccontare la storia di un clima che cambia, e che lo fa in maniera tale da cambiare anche la nostra vita senza che ce ne accorgiamo? Ma è vero che non ce ne accorgiamo? Magari invece lo vediamo ma accettiamo fatalmente il cambiamento senza reagire per una forma di pigrizia, o perché ci va bene così, oppure perché ci conviene economicamente. Dove ci può portare questa accettazione? Chi ce lo sa spiegare? Se ci parla con toni catastrofisti non ci va di ascoltarlo, se è verboso e «professorale» nell’esposizione dei dati scientifici ci risulta inascoltabile, se poi parla difficile non ci viene voglia di sforzarci per capirlo. Sto riflettendo ad alta voce, cercando di mettermi nei panni di un ascoltatore medio che da decenni si vede investire da una valanga di dati scientifici, presentati per suffragare l’idea che i cambiamenti climatici vanno presi sul serio. Tuttavia, allo stesso tempo, mi rendo conto che – dopo molti anni, almeno trenta, e dopo che la Conferenza dell’ONU su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro del 1992 aveva fatto conoscere al grande pubblico la parola ecologia, la cura per l’ambiente, il pericolo delle catastrofi naturali sempre più frequenti – oggi ancora esistono al riguardo ignoranza, ostracismo, dubbio o, peggio, indifferenza.

Allora mi chiedo: in cosa hanno sbagliato i divulgatori nel comunicare la scienza, le sue conquiste, le sue possibilità e le soluzioni (quando ce n’erano)? Perché non si sono fatti ascoltare? Perché hanno convinto soltanto una piccola minoranza della popolazione mondiale?

George Marshall, britannico, scrittore e attivista per il clima di fama mondiale, in un suo libro del 2014 affermò che «il riscaldamento globale è la più importante storia che non abbiamo mai saputo raccontare». Telmo Pievani, filosofo della scienza, professore universitario e brillante comunicatore scientifico, mi è apparso altrettanto realista. L’ho ascoltato in una recente conferenza/dibattito tenutasi alla Supsi di Mendrisio, dove, insieme a Cristian Scapozza (professore in geomorfologia applicata e responsabile del Centro competenze cambiamento climatico della stessa Supsi) e con la moderazione della divulgatrice scientifica Clara Caverzasio, ha sostenuto che la storia della comunicazione dei cambiamenti climatici è la storia di un fallimento.

Perché abbiamo fallito? Una delle ragioni per Pievani è che lo scienziato e il divulgatore scientifico hanno nemici molto agguerriti, quando si parla di climate change. Perché i negazionisti in questo campo hanno dietro di sé degli interessi precisi da difendere, e quindi mettono ostacoli economici e sostengono affermazioni di parte che generano l’inquinamento del dibattito. Ha citato a esempio la realtà italiana, che conosce bene, dove secondo lui raramente i dibattiti televisivi sono svolti in modo leale. Alcuni suoi colleghi non vogliono più parteciparvi.

Gli scienziati sono messi in difficoltà da chi è bravo a sostenere falsità, con linguaggi facili da capire per il pubblico, senza essere chiamato a dare spiegazioni. Lo scienziato invece deve sempre argomentare, spiegare cose che hanno complessità difficili da digerire per il largo pubblico, che quindi si annoia. Il gioco non è equo e a volte addirittura scorretto.

Altra ragione del fallimento: il linguaggio e le modalità scelte finora per far passare il messaggio scientifico. Ovviamente parlar facile e farsi capire è la chiave di tutto. Ma non basta. Bisogna scegliere il giusto campo e il giusto interlocutore. Anche in questo caso Pievani riferisce della situazione italiana, che però è molto simile alla nostra. Quando si fa comunicazione della scienza in modo tradizionale, con i festival della scienza, le conferenze, i laboratori aperti, abbiamo buoni riscontri, tanta gente viene a vederci e siamo contenti.

In realtà quella partecipazione nei numeri costituisce una esigua minoranza di chi dovrebbe ascoltare, e noi continuiamo a parlare sempre agli stessi, a chi già è interessato e perfettamente convinto di ciò che stiamo dicendo. Pievani dice: «Noi predichiamo ai convertiti». Bello, gratificante, ma non ci fa avanzare nel sensibilizzare la gente e farle capire i problemi incombenti. Bisogna raggiungere quelli che si informano solo tramite la televisione e il web, dove la correttezza scientifica fa spesso difetto. È bene non parlare di massimi sistemi ma appoggiarci a fatti concreti, anche piccoli, vicino alla gente, con un linguaggio che tutti possono capire e condividere.

Giocando il ruolo dello scienziato, Cristian Scapozza ha voluto fare un esempio di casa nostra, parlando dell’impatto del cambiamento climatico negli ambienti freddi di alta montagna e di come, per farsi capire dal grande pubblico, i media possano commettere errori e dare informazioni imprecise. Data la complessità del messaggio scientifico i media tendono a prendere scorciatoie mentali. L’esempio scelto da Scapozza è la caduta massi dal Chüebodenhorn in alta Val Bedretto, sopra la capanna Piansecco, avvenuta nel settembre scorso. La notizia diceva che la caduta massi era dovuta al caldo (isoterma di zero gradi da giorni oltre i 4700 metri) e al conseguente scioglimento del permafrost e del ghiaccio che fin qui li tratteneva. Una semplificazione di linguaggio che porta all’errore scientifico. Il ghiaccio non è la colla delle montagne, che se si scioglie per il riscaldamento climatico le fa crollare, e il permafrost non si scioglie, ma piuttosto si ritira.

Cos’è il permafrost? La definizione dice che è semplicemente un terreno la cui temperatura rimane al di sotto di zero gradi per almeno un anno. Questo terreno può essere della roccia, un detrito, un suolo, quindi non necessariamente deve contenere del ghiaccio. Ma visto che conosciamo lo scioglimento dei ghiacciai siamo portati ad accettare la semplificazione giornalistica: le temperature si riscaldano, il ghiaccio si scioglie, la roccia cade. Equazione scientificamente scorretta, che però è facilmente capita dalla gente perché segue lo schema mentale causa-effetto al quale il nostro cervello è abituato. Il problema nella comunicazione è che un messaggio scientifico corredato con molti dati non è ben leggibile e gradevole.

Qual è quindi il modo migliore per far passare al grande pubblico il messaggio del pericolo associato ai cambiamenti climatici? Continuare a presentare fatti, modelli e numeri non coinvolge un pubblico più ampio, l’esperienza ci dice che non sta succedendo e non succederà. Quindi bisognerà sperimentare nuovi linguaggi: per esempio si potrebbe ibridare l’espressione scientifica con la narrazione teatrale. Lo si sta già facendo. Ferruccio Cainero, scrittore, attore e regista teatrale, friulano ma quasi di casa nostra, ha ripreso i contenuti di Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, un libro del 2005 del prestigioso scienziato statunitense Jared M. Diamond, per allestire un gustoso spettacolo intitolato C’ero clima io dove con una narrazione allegra e spiritosa si svelano preoccupanti verità scientifiche relative ai cambiamenti climatici nella storia.

Altri mezzi potrebbero essere trovati in futuro dai giovani di oggi, sempre più consapevoli dei rischi legati a una sottovalutazione della verità scientifica sui cambiamenti climatici presentata dagli scienziati.