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Dall’uomo creatore all’uomo distruttore
Parole verdi 9 – Con questo articolo continua la serie dedicata al nostro rapporto con l’ecologia e la crisi climatica
Francesca Rigotti
Come siamo arrivati alla situazione attuale, in cui l’homo faber, l’uomo creatore ed edificatore, è diventato homo destructor, devastatore e distruttore dell’ambiente? E com’è che altre società sono state in grado di modificare la natura senza distruggerla, e la nostra invece non ne è capace? Cerchiamo di rispondere a queste domande con l’aiuto di un recente saggio in lingua tedesca di Werner Bätzing (Homo destructor. Eine Mensch-Umwelt-Geschichte, München, Beck, 2023, pp. 464).
I problemi arrecati dagli esseri umani al pianeta terra: inquinamento del suolo, delle acque, dell’aria, riscaldamento climatico, distruzione delle specie ecc. causano una minaccia gravissima eppure non è così facile smetterla con la distruzione dell’ambiente. Né hanno molto da dire le opzioni estreme: la soluzione tecnocratica, secondo la quale i problemi causati dalla tecnica saranno risolti con sempre più tecnica, e la soluzione romantica che mira a recuperare una primeva armonia tra uomo e natura. Ci si può a questo punto chiedere se da sempre l’uomo possegga la faccia «distruttrice» che lo porta a devastare l’ambiente o se questa tendenza si verifichi soltanto a certe condizioni, o se l’abbia acquistata a partire da un determinato periodo.
È così. La distruzione è recente. Nel passato il rapporto dell’uomo con l’ambiente era diverso, non di distruzione bensì di adattamento – non però di sottomissione – e da ciò si possono trarre insegnamenti positivi per affrontare in maniera corretta il rapporto con l’ambiente. Non è detto infatti che debba sempre vincere l’arrogante posizione dell’Occidente, rinforzata dal messaggio biblico, per la quale l’uomo dotato di lògos, di ragione, si differenzia dalla natura e può dominarla e sfruttarla ai propri, fini. Meglio una posizione che assegni all’uomo alcuni gradi di libertà nel controllo della natura, non una libertà di azione assoluta. Come potremmo dunque esercitarli per affrontare i problemi ambientali che richiedono un profondo cambiamento delle attuali strutture economiche, sociali, spaziali? Forse non immaginando il ritorno a un ipotetico stato di natura à la Rousseau, e nemmeno all’antichità o al Medio Evo, quanto agli anni ’50 e ’60 del Novecento, a noi non tanto lontani e che hanno lasciato abbondanti tracce. Certo, non aiuta il fatto che il mondo sia modellato da consumo individuale, concorrenza economica, lotte tra stati per il potere. Di fronte a essi un appello ragionevole ai comuni interessi ambientali sarebbe troppo debole. Una rivoluzione allora, un atto improvviso e violento, una ecodittatura per dissipare la ecoansia? Anche questa improbabile, dato l’intreccio tra politica ed economia e il prevalere di denaro e potere su concordia e ragionevolezza.
Nel caso però di crolli ecologici parziali, limitati, che investissero solo una parte del mondo umano e indebolissero i pilastri su cui esso si regge, denaro, mercato, potere, globalizzazione, si potrebbero forse aprire gradi di libertà per nuove forme di sviluppo. Qui l’uomo userebbe la natura senza distruggerla, autolimitandosi, rinunciando (Rinuncia era la parola verde di settembre, ed era una rinuncia positiva e arricchente) e rifacendosi a quel mondo degli anni 50/60 ancora a noi vicino.
Una posizione conservatrice, reazionaria, che sottrarrebbe all’uomo l’unico principio che può e deve dirigerlo, ovvero la propria autonomia nel realizzare innovazioni e cambiamenti? Ma se sono proprio quelli, che portano inesorabilmente alla distruzione?