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La bicicletta e l’arte dell’upcycling
Cicli e ricicli - Anche gli oggetti hanno un’anima, secondo la tradizione nipponica
Amanda Ronzoni
Ho una vecchia mountain bike nell’ingresso di casa, che mi guarda contrariata perché da molto non esco più con lei. Le gomme più che sgonfie sono depresse, la catena immobilizzata da uno strato di polvere. Eppure non mi sognerei mai di rottamarla. Non potrei proprio. Fin da piccola, ho sempre creduto che gli oggetti che ci circondano, non tutti, ma almeno alcuni, abbiano una specie di anima e ogni volta che devo buttar via qualcosa che è stato con me per molto tempo, mi costa una certa fatica. Indagando quella che mi pareva una stranezza infantile, ho scoperto di non essere sola.
In Giappone questa credenza si concretizza in un concetto preciso: negli tsukumogami (付喪神), ovvero gli spiriti che si animano in oggetti particolarmente vetusti (dai cent’anni in su, secondo il folklore tradizionale), e che possono essere buoni se chi ha maneggiato tali oggetti li ha trattati bene, ma anche maligni se, al contrario, li ha maltrattati. Ha a che fare come capita spesso con una leggenda, giacché il termine Tsukumogami rimanderebbe al nome di un oggetto animato (più precisamente a un barattolo da tè) che aiutò Matsunaga Hisahide (il quale all’epoca – siamo nel sesto secolo – ricopriva l’importante carica feudale di daymo) per negoziare la pace con il temuto Oda Nobunaga, condottiero di campagne militari alla conquista del Giappone.
Lasciando per un momento da parte l’indubbio fascino di questa tradizione, il rapporto che abbiamo con gli oggetti è oggi più che mai controverso. Consumiamo tutto alla velocità della luce e lo buttiamo, pronti a cambiare in nome della novità, più che mossi da un effettivo bisogno. Mentre se è vero che nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, è proprio su quest’ultima fase che potremmo concentrarci maggiormente.
Per questo sono importanti coloro che si appassionano alla bicicletta sia da un punto di vista di riparazioni meccaniche e strutturali (per salvaguardare l’affetto che lega l’oggetto al proprietario, e anche in vista di un certo risparmio delle risorse), sia dedicandosi al riciclo per questioni ambientali così da favorire l’uso delle due ruote non solo come mezzo di svago o sportivo, ma come mezzo di trasporto in sostituzione delle automobili; soprattutto per gli spostamenti in città.
Insomma la bicicletta potrebbe diventare sempre più un vero status symbol, specie in ambiente urbano, con la speranza che vada pian piano a scalfire il primato ora detenuto dalle auto a favore di un ciclismo metropolitano. Andare in bicicletta, il più possibile, come stile di vita, con tutte le ricadute positive che ha sulla salute individuale, l’ambiente e l’economia, nonostante quello che ne dicono alcuni detrattori, aiuterebbe molto il nostro benessere.
Se da una parte è sempre più facile poter usufruire di biciclette oltre che belle, anche perfettamente adatte alle nostre esigenze e persino ai nostri corpi (portamonete permettendo), per pedalare con il massimo livello di confort e sicurezza, dall’altra, come detto si percepisce però un cambiamento della tendenza all’usa e getta, che parrebbe si stia poco a poco invertendo anche in Occidente: qua e là spuntano infatti sempre più negozietti che risistemano vecchie bici (incredibile constatare quanto fossero pregevoli le fatture di 50, 60 anni or sono). Chi porta quella ereditata dal nonno, chi fa risistemare quella in garage da tempo, ma che, come me, non aveva cuore di rottamare.
Da questa attività si può poi passare all’innovazione, innestando su vecchi e nuovi telai ad esempio dei sistemi per la pedalata assistita. Le bici elettriche stanno conoscendo un periodo d’oro: in molti riscoprono il piacere di pedalare, ma sicuramente è necessario stabilire regole precise per il loro utilizzo in sicurezza. Per fortuna, il trend è in crescita e ci sono sempre più officine che offrono servizi analoghi.
Tornando agli tsukumogami, non sorprende che nel Paese del Sol Levante, famoso per la modernità estrema e la tecnologia sempre un passo avanti, si indugi invece in pratiche di recupero, più che di riciclo, di vecchi oggetti, secondo un altro concetto squisitamente giapponese: il mottainai (もったいない o 勿体無い), ovvero il dispiacere nel vedere sprecato qualcosa, soprattutto se ancora in buono stato. Esistono ospedali per peluche, medici che aggiustano giocattoli rotti, artigiani che si dilettano a recuperare le cose apparentemente più strane all’occhio occidentale. C’è ad esempio una ragazza che recupera vecchie cartelle di scuola. Oggetto iconico in Giappone, le randoseru (ランドセル) sono degli zainetti in pelle piuttosto robusti, che normalmente seguono ogni studente nei sei anni delle elementari.
La collazionatrice le smonta con dedizione e trasforma i vari pezzi in altri oggetti: cornici, portafogli, porta chiavi, borse, dando a un oggetto altrimenti non più utile una nuova vita. E poi c’è chi da cinture di sicurezza e airbag, componenti durevoli e purtroppo non riciclate, ricava borse resistentissime per attività all’aria aperta. Alcuni di questi artigiani sono persone in pensione, che dopo una vita dedicata al lavoro, con la dedizione totale di cui i giapponesi sono capaci, si trovano senza far nulla, ma pieni di esperienza e di voglia di fare. E decidono di rimettersi in gioco con attività di questo tipo.
Riciclare, rigenerare, ripristinare. Sono concetti che stanno tornando in voga, più per necessità che per moda. Anche da noi. Il Giappone non è poi così lontano.