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Dall’emergenza all’eccezione

Parole verdi 8 – Con questo articolo continua la serie dedicata al nostro rapporto con l’ecologia e la crisi climatica
/ 23/10/2023
Francesca Rigotti

Supponiamo che queste eccezionali temperature estive di settembre e ottobre (a parte il breve periodo di temporali e grandinate intorno al 20 settembre) siano, oltre che un piacere fisico ed estetico nonché una benedizione per le spese di riscaldamento, anche il segnale, per quanto benevolo, di una svolta malevola, pericolosa. Che questa anticipata estate di San Martino sia un avviso della crisi, anzi della emergenza climatica? E come reagire: con misure blande (di buon senso), forti (di emergenza), fortissime (di eccezione)? Emergenza, eccezione. Sono queste le parole verdi sulle quali intendo soffermarmi. Sembrano semplici ed evidenti, ma sono anche termini tecnici del pensiero filosofico-politico sui quali esiste un’ampia letteratura che assegna a ogni parola significati precisi. Lo stato d’emergenza, in caso di pericolo pubblico che minacci la vita di una nazione, può prevedere una sospensione temporanea dei diritti civili e politici e delle libertà fondamentali per imporre misure straordinarie. Le richiede l’emergenza climatica? Siamo disposti a subirle?

L’eccezione, o più precisamente lo stato di eccezione, studiato soprattutto dal giurista e filosofo politico tedesco Carl Schmitt in un’opera del 1922, Teologia politica, è qualcosa di diverso. Lo stato di eccezione è dispotico e anticostituzionale; in teoria esercita una minaccia nei confronti delle democrazie liberali; sarebbe una cosa rara, eppure, in pratica, negli ultimi vent’anni queste paiono vivere in uno stato d’eccezione permanente, determinato dai metodi della lotta al terrorismo, della gestione delle catastrofi umanitarie, delle modalità per ripianare i debiti di stato fino alle misure contro la crisi pandemica. Siamo sulla soglia di uno «scivolamento eccezionalista» che conduce verso regimi illiberali noi ingenui abitanti delle felici democrazie occidentali? Ci serve uno stato di eccezione per superare – sempre che sia ancora possibile – la crisi climatica, o basta uno stato d’emergenza per intervenire nell’emergenza climatica? Sembra un gioco di parole, ma se è un gioco, è rischioso.

Le misure di emergenza non incidono, dicono, sulle procedure democratiche – anche se sospendono garanzie costituzionali e diritti umani fondamentali, determinano derive paternalistiche e autoritarie, favoriscono lo strapotere dell’esecutivo – perché sono procedure, appunto, d’emergenza, semplici modalità di intervento sulla vita sociale.

Se non si vuole lo stato di eccezione si accetti, sostengono alcuni teorici, lo stato di emergenza, al quale potrebbero comunque essere sacrificati le libertà e i diritti personali ma anche la separazione dei poteri, l’eguaglianza giuridica degli individui, la certezza della legge. Gli interventi di emergenza sono compresi nei margini del diritto e della morale ordinari – dicono – e non facilitano lo stato d’eccezione.

Anche accettando questa posizione conciliante (emergenza sì, eccezione no) chi garantisce che il prepotere dell’Esecutivo non si incisti, a discapito delle prerogative del Legislativo, nelle democrazie non più così liberali e già profondamente in crisi? Chi assicura che l’emergenza in caso di crisi climatica non faccia semplicemente quello che fa lo stato di eccezione cioè sospendere le garanzie costituzionali inserendo trasformazioni stabili nella gestione politica? Chi garantisce che la muraglia tra stato di eccezione e stato di emergenza non sia, invece che solida e impenetrabile, molto più porosa e bucherellata del previsto?