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L’esperienza di Vito

«Ho fatto giardinaggio, poi traslochi, pulizie di appartamenti, pittura, sgomberi e lavori nella natura come pulire una spiaggia o togliere felci infestanti. Io ho 18 anni, vivo a casa e sono un utente dello Spazio Ado (centro a Lugano-Besso delle attività diurne della Fondazione Amilcare, ndr.). Lavorare qui mi permette di dare tutto quello che ho per raggiungere un risultato, verificare quanto sono idoneo al lavoro, la mia attitudine e quanto sono dedito. Mi permetterà di lavorare in futuro fuori! La cosa più bella è lavorare a stretto contatto con gli educatori, parlando con loro, diventiamo colleghi. Lavorerei sempre, ma le richieste sono tante e quindi ci sono settimane in cui non si può perché bisogna dare possibilità anche agli altri. Io sono entusiasta, i ritmi sono tranquilli, e le responsabilità ci sono, ma non sono troppe».


Educare all’autonomia attraverso il lavoro

Giovani in difficoltà - Il progetto AdoMani della Fondazione Amilcare compie dieci anni, pensato per ragazzi tra i 15 e i 20 anni propone attività pratiche di corta durata remunerate. Ce ne parla Patrizia Quirici, vicedirettrice della fondazione
/ 16/10/2023
Valentina Grignoli

Compie dieci anni il progetto AdoMani, una preziosa iniziativa grazie alla quale la Fondazione Amilcare accompagna i suoi utenti verso un domani più «gestibile». Di che cosa si tratta? Di un avvicinamento dei ragazzi dai 15 ai 20 anni verso un mondo del lavoro accessibile, concreto e utile, adeguato alle loro risorse. L’esperienza è ripetibile ogni settimana per tre giorni, remunerata e gestita da un’équipe di educatori della fondazione. Si tratta di attività che possono spaziare dal giardinaggio allo sgombero, dall’allestimento di mostre ai traslochi, grazie alle quali i ragazzi si sentono utili e spesso riescono a uscire da una spirale di negatività e passività. Il lavoro diventa così strumento di mediazione educativa e può facilitare la costruzione di una relazione, permette di acquisire una maggiore consapevolezza delle proprie capacità e risorse, ma anche dei limiti. Inoltre, spostando l’attenzione su un’attività lavorativa, i ragazzi prendono temporaneamente distanza dai problemi e dalle preoccupazioni quotidiane.
Per conoscere la realtà di AdoMani più da vicino, abbiamo incontrato Patrizia Quirici, vicedirettrice della Fondazione Amilcare.

Innanzitutto, quali sono le problematiche che accomunano gli utenti della Fondazione Amilcare?
I ragazzi arrivano da noi perché vivono delle difficoltà in famiglia tali da non permettere più loro di vivere nel nucleo d’appartenenza. Conflitti, maltrattamenti, ma anche trascuratezza o consumo di sostanze. La famiglia è in difficoltà nel sostenere il loro percorso di crescita e i ragazzi si trovano in situazioni di disagio.

Chi lavora per AdoMani?
Tutti i ragazzi della Fondazione, in tutto una sessantina, tra i 15 e i 20 anni. Proponiamo però AdoMani soprattutto a chi non è inserito in un percorso formativo scolastico o professionale, o che lo è solo in parte, e quindi ha disponibilità in settimana. Questi ragazzi hanno bisogno di essere occupati e sperimentarsi in attività di vario tipo per ritrovare la fiducia in sé stessi, mettersi in gioco per vedere il risultato del proprio lavoro. Si tratta di attività prevalentemente pratiche, in equilibrio tra interno o esterno della Fondazione, per garantire un’esperienza diversificata.

Per quale motivo questi ragazzi si trovano fuori dal circuito formativo?
Non stanno bene, sono sofferenti per situazioni che vivono e faticano ad avere continuità in un progetto. Prima di affrontare di nuovo un percorso formativo serve «sistemare» una serie di vissuti, di esperienze, riuscire a essere sufficientemente sereni per investire nuove energie.
Ci sono ragazzi che non hanno ottenuto la licenza di scuola media, questo è un primo indicatore di esclusione. Senza è difficile poter accedere a un apprendistato. Poi non hanno fiducia, non solo verso sé stessi ma anche verso il mondo degli adulti. Hanno paura di fallire, non si sentono più capaci, faticano a credere di avere un valore e il diritto ad un posto nel mondo. Sono ragazzi a rischio di emarginazione. Collocati poi in Fondazione, e questo comporta, rispetto ai coetanei, un fattore di criticità.

Tornando ad AdoMani, come nasce l’esigenza della sua creazione?
Ci siamo resi conto che avevamo tanti ragazzi non più inseriti nei percorsi formativi classici e che quindi rimanevamo «incastrati» in una spirale di noia e insoddisfazione non positiva per la crescita e lo sviluppo psicofisico e sociale. Abbiamo sentito la necessità di provare a dare una risposta ai bisogni, attraverso attività di corta durata – il ragazzo può iscriversi anche solo una giornata. Si tratta come detto di attività semplici, concrete, dove è possibile vedere il risultato del proprio lavoro. Con AdoMani proviamo a creare un servizio dove i ragazzi possono iscriversi e lavorare se vogliono, e ricevono un compenso in denaro a lavoro fatto. Un’esperienza molto vicina alla realtà, e funziona! Vediamo che, con questo tipo di formula aperta (ci si iscrive prima a uno e poi a due giorni), sperimentano la puntualità, la costanza, il lavorare in gruppo, il rispetto per il prossimo e verso l’impegno preso. Tutte competenze trasversali fondamentali per qualsiasi lavoro. Sono attività alla portata di tutti che permettono di sviluppare competenze sociali utili ai ragazzi per il loro reinserimento in altri contesti lavorativi e scolastici. Per integrarsi e avere una vita dignitosa.

Che cosa significa lavorare in un ambiente protetto?
I percorsi sono individualizzati, si guarda al ragazzo nella sua globalità, rispetto ai suoi bisogni, le sue risorse e le sue fragilità. Gli obiettivi raggiunti sono quelli di cui hanno realmente bisogno. All’inizio i percorsi sono caratterizzati da un maggior accompagnamento, ma man mano che il giovane acquisisce fiducia si cerca di metterlo sempre di più in una situazione di contesto reale. AdoMani, benché si svolga in un contesto protetto, si propone come vero e proprio datore di lavoro. I ragazzi sono spronati a vivere l’esperienza, a chiedere sempre meno sostegno.

Cos’è il lavoro nella nostra società e a cosa può condurre invece l’inattività, secondo lei?
Una parte della nostra identità è data dal lavoro che facciamo, attraverso il lavoro ci definiamo socialmente e non solo professionalmente. A causa dell’inattività prolungata nel tempo la persona si perde, prova sofferenza, può ammalarsi. Si sente emarginata, prova sentimenti di inutilità e frustrazione. I ragazzi che non riescono a inserirsi, tendono a entrare in circuiti malsani che li possono portare a non evolvere, a marciare sul posto, a implodere. Sappiamo che è difficile per tutti. A qualsiasi persona si chiede di essere performante, la società ci vuole così. I nostri ragazzi, che partono già svantaggiati a causa della loro storia di vita, fanno ancora più fatica in questo. Ma ci provano, trovano il coraggio e ce la possono fare.