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Coltivando verdi speranze
Sostenibilità - Piante e alberi non sono figli di un dio minore. Eppure, li trattiamo come esseri ornamentali, al più come fonte di legno per l’edilizia e il riscaldamento
Amanda Ronzoni, testo e foto
Dobbiamo a loro ogni nostro respiro. Dovrebbe bastare questa semplice considerazione per farcele vedere sotto un’altra luce. E invece, come scrive mirabilmente Emanuele Coccia nel suo La vita delle piante, esse «sono la ferita sempre aperta dello snobismo metafisico che contraddistingue la nostra cultura. Sono il ritorno del rimosso, di cui ci dobbiamo sbarazzare per poterci considerare diversi: uomini, razionali, esseri spirituali».
Non è stato sempre così e, per fortuna, non lo è per tutti. L’albero della vita è un elemento universale che ritroviamo in tante diverse culture e tradizioni. Congiunzione tra cielo e terra, fonte di saggezza e nutrimento, depositario del bene e del male, i suoi frutti d’oro miracolosi, in grado di togliere la fame e la sete. Boschi sacri hanno custodito il mistero di divinità silvane. All’ombra di alberi secolari si sono compiuti riti magici e sacrifici. Fronde cariche di foglie e profumi hanno ornato caverne, altari e portali. Ancora: sono stati e continuano a essere simbolo di pace, prosperità, saggezza, gloria, potere.
Eppure, oggi, gli alberi nelle nostre città sono al più ridotti ad arredo urbano. Per il nostro tempo veloce e iperconnesso sono l’emblema dell’immobilità: fissi, senza pensiero né relazione, senza volontà né capacità di pensare un futuro. Questa apparente inerme passività del mondo vegetale lo condanna al mero sfruttamento. Con sguardo superficiale, applichiamo le nostre categorie a un mondo che semplicemente si muove seguendo regole e ritmi differenti, ma soprattutto secondo una scala temporale più dilatata della nostra.
E pensare che, come ci spiega la scienziata canadese Susanne Simard – docente di Ecologia Forestale presso il Dipartimento di Scienze forestali e conservazione dell’Università della British Columbia – gli alberi hanno creato molto prima di noi un proprio sofisticato sistema di comunicazione, un WWW, un Wood Wide Web, attraverso il quale «piante madre» (o hub) scambiano con figli e alleati importanti informazioni ambientali e risorse. Scopriamo così che, nel bosco, sotto i nostri piedi, esiste una rete micorrizica fatta di infiniti percorsi biologici, dove gli apparati radicali di alcune specie di piante e determinati funghi sviluppano un fitto dialogo e un corposo scambio di nutrienti e informazioni chimiche: le piante madre inviano acqua, azoto, carbonio, zuccheri ai propri figli o ad altri esemplari di specie «alleate», magari meno sviluppati o situati in posizioni meno propizie; segnalano stress ambientali, la presenza di insetti infestanti, l’arrivo di un incendio; prima di morire lasciano in eredità informazioni sul clima e il territorio agli altri membri della rete. Gli alberi sono tutt’altro che muti, immobili e incapaci di relazioni, al contrario sono esseri super collaborativi.
Se queste considerazioni vi sembrano, più che interessanti, addirittura azzardate, provate a leggere il libro dell’antropologo Eduardo Kohn, Come pensano le foreste, che ha lavorato per alcuni anni tra i Runa dell’Alta Amazzonia in Ecuador. Kohn spiega come, entrando nel mondo quotidiano degli abitanti della foresta, abbia imparato ad estendere l’ascolto etnografico ad altri tipi di esseri, non solo agli umani, costringendolo di fatto a ripensare il concetto di «essere umano».
I popoli dell’Amazzonia sono fermamente convinti della capacità della foresta di pensare, tanto che la loro vita si sviluppa tenendo conto di questa che per loro è una realtà e non un assunto fideistico. Secondo la Dichiarazione Kawsak Sacha (Foresta Vivente), il popolo Sarayaku ritiene che «il mondo definito naturale è composto da esseri viventi e dalle relazioni comunicative che tali esseri intrattengono tra loro e con noi», e su questa convinzione ha basato una proposta politica concreta che mira a trasformare leggi e politiche attuali, per ora basate su una visione cosmica di matrice occidentale che relega gli spazi naturali a fonti inerti di risorse materiali ad uso e consumo unicamente umano.
Dialogo, condivisione ed empatia, sono parole chiave che tornano non solo nelle teorie esposte da Kohn, ma anche nelle indicazioni di Susanne Simard all’industria che gestisce la produzione di legname e il taglio degli alberi: lasciare alla natura il tempo di gestire il disturbo forestale causato dall’uomo non è un atto irrazionale o bizzarro, ma il primo passo per ristabilire un equilibrio tra noi e l’ambiente che ci circonda, nell’interesse di tutti.
Perché se c’è una cosa che le foreste ci possono insegnare è la capacità di guarigione da traumi che sembrano irreversibili: il fuoco è uno di questi. Lo spiega bene La resilienza del bosco, di Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente di Gestione forestale presso la Statale di Milano. Gli alberi resistono, si spostano, migrano in seguito a eventi di disturbo come siccità e incendi. Studiando questi traumi, si apprende come una gestione mirata del fuoco possa essere una soluzione per contrastare gli incendi sempre più devastanti che negli ultimi anni si stanno abbattendo con sempre maggior frequenza su boschi e foreste a ogni latitudine. La pratica dei cosiddetti fuochi prescritti, ad esempio, ha una lunghissima tradizione tra gli aborigeni australiani, e i paesi in cui è regolarmente praticata sono stati meno colpiti dai roghi recenti.
Anche nella corsa alla riduzione di CO2 gli alberi sono fonte di ispirazione. Il meccanismo della fotosintesi, che in presenza di luce trasforma anidride carbonica e acqua in zuccheri e carboidrati, rilasciando ossigeno, è oggetto di studi da diversi anni. Uno dei più recenti e interessanti è la «foglia artificiale» messa a punto dal consorzio A-Leaf, di cui fanno parte anche il Politecnico di Zurigo e l’École polytechnique fédérale di Losanna. Il dispositivo utilizza l’elettroriduzione di CO2 per produrre prodotti chimici ad alto valore aggiunto (come gli idrocarburi) o per immagazzinare energia solare. In parole povere, una fotosintesi artificiale alimentata da un sistema fotovoltaico, che oltre a ridurre le emissioni di anidride carbonica, contribuisca a limitare gli effetti del cambiamento climatico.
Pensiamo, infine, al benessere che ci regala una passeggiata nel bosco. Studi scientifici dimostrano che camminando tra gli alberi, il battito cardiaco si regolarizza, la pressione si abbassa e l’umore migliora.
Non male per degli esseri immobili, senza pensiero né relazione, né capacità di pensare il futuro.