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Perdita di biodiversità e schiene piegate

Sfruttamento - Le monocolture di canna da zucchero impoveriscono sempre di più i campi e riducono i braccianti tagliatori a una nuova forma di schiavitù
/ 15/08/2022
Luigi Baldelli, testo e foto

L’impatto sull’ambiente della coltivazione di canna da zucchero sta diventando, anno dopo anno, sempre più forte. Nel mondo più di 31 milioni di ettari di terra sono destinati alla sua coltivazione. Un territorio grande come l’Italia. Una deforestazione selvaggia è stata portata avanti per lasciare posto a questa monocoltura. A ciò va aggiunto l’uso intensivo di pesticidi, impiegati per migliorare la produzione. A nulla sembra essere servita l’esperienza cubana sulla scia della cosiddetta «Rivoluzione verde» che ebbe tra tanti risultati positivi anche risvolti negativi, tanto che determinò un severo impoverimento dei terreni.

In un rapporto del WWF si stima che la coltivazione di canna da zucchero possa essere una delle maggiori cause per la perdita di biodiversità rispetto ad altre colture. Questo perché si distruggono gli habitat delle foreste per far spazio alle piantagioni, viene fatto uso massiccio di prodotti chimici con conseguente inquinamento delle falde acquifere e dei fiumi a causa delle acque di rifiuto che vengono smaltite dopo l’uso. Ma attenzione: il danno all’ambiente non riguarda solo quei Paesi equatoriali o tropicali che sono i maggiori produttori, come appunto il Brasile, dove con la canna da zucchero si produce anche il combustibile etanolo, o l’America Centrale, l’India o la Cina.

A causa dei pesticidi usati dall’industria dello zucchero, infatti, è in grave sofferenza anche la Grande barriera corallina dell’Australia mentre in Papua Nuova Guinea la fertilità del suolo è diminuita del 40 per cento a causa della coltivazione di canna da zucchero, che in Florida sta mettendo a rischio la zona paludosa delle Everglades.

Da un rapporto della ONG Mani Tese, in tutte queste aree adibite a tale monocoltura emergono in maniera chiara e netta le numerose violazioni dei diritti ambientali. Una delle violazioni più ricorrenti è quella del land grabbing, cioè l’accaparramento di terreni nel sud del mondo da parte di Paesi sviluppati, che minaccia la sovranità alimentare dei paesi stessi. Questi complessi habitat naturali convertiti a monoculture oltre a rappresentare un rischio per gli ecosistemi, incidono sul cambiamento climatico. Perché pesticidi e fertilizzanti sono anche fonte di emissione di gas serra, oltre a essere dannosi per la salute umana.

A tal proposito va sottolineato che proprio l’impatto sulla salute dei lavoratori è un’ulteriore nota dolente delle coltivazioni di canna da zucchero: la maggior parte dei braccianti non hanno diritti individuali o contrattuali. Bisogna tenere ben presente che dove ci sono le piantagioni di canna da zucchero, le temperature ambientali sono molte alte e i tagliatori lavorano per dieci o dodici ore al giorno curvi sotto al sole a tagliare arbusti a colpi di machete.

È stato accertato che tali condizioni di lavoro ad alte temperature e la forte disidratazione cronica, a cui si aggiunge l’inspirare potenti fertilizzanti e pesticidi, provocano la malattia renale cronica da cause non tradizionali, indicata come CKDnT. La principale organizzazione di ricerca su questo problema, la Isla Network, ha stabilito che in America Centrale in un decennio sono morte più di 20mila persone a causa di questa patologia, che è cronica, invalidante e dolorosa. Anche se è stata classificata come malattia multifattoriale, il mondo della ricerca e della medicina concorda nell’attribuire le cause all’uso di agrochimici e alle condizioni di lavoro.

Certo è che le nazioni più colpite sono il Nicaragua ed El Salvador, dove queste morti silenziose hanno attraversato diverse famiglie di braccianti e dove sono state portate avanti, senza successo, cause legali contro i proprietari terrieri delle piantagioni. La cura per questa malattia è quella della dialisi, ma il costo è davvero eccessivo per i lavoratori delle piantagioni e per molti di loro, arrivare al punto di non ritorno, vuol dire anche aver consapevolezza di una morte certa in tempi brevi.

«È faticoso, tanto. Ore e ore sotto il sole feroce per pochi dollari a fine giornata che non bastano per campare» ci racconta Jean, un haitiano che lavora nelle piantagioni della Repubblica Dominicana, un braceros, come vengono chiamati qui. Ha attraversato il confine che divide Haiti e la Repubblica, per venire a lavorare sei o sette mesi durante il raccolto della canna.

Le condizioni di vita dei tagliatori sono dure, vivono in agglomerati di capanne e baracche al centro della piantagione, i batey. Spesso senza acqua ed elettricità, per non parlare dei servizi igienici. Lavorano più di 12 ore, e anche se non hanno le catene, si possono definire schiavi. Schiavi moderni senza alcun dritto e sempre in lotta quotidiana per cercare di sopravvivere.

«Appena sono arrivato qui – mi racconta Pierre, un giovane braceros di 18 anni, mentre è seduto a riposarsi, le mani piene di tagli, il sudore sulla fronte e due occhi neri che guardano fissi a terra – ho dovuto subito fare dei debiti con gli intermediari del proprietario, per comprare qualcosa da mangiare e un paio di vecchi stivali di gomma». Poi, con una mossa lenta tira fuori dalla tasca dei pantaloni una ricevuta: «Guarda qui, guarda, mi dice mentre mi passa il foglio, è la mia paga. 20 dollari per 4 giornate di lavoro», una somma che si basa sulle ore lavorate e sulla quantità di canna tagliata, parametri valutati dai dirigenti che il braceros non può controllare o negoziare. Poi guardandomi aggiunge «e non posso neanche protestare, perché non ho diritti, sono illegale, rischio di essere mandato via. E se torno ad Haiti cosa posso fare?»

Le piantagioni, una delle principali fonti dell’economia insieme al turismo, sono immense distese segnate da poche strade sterrate. Percorrendole si incontrano uomini stanchi, curvi, con in mano il machete, e che lentamente tornano verso il batey, il villaggio che non ha neanche un nome, ma solo un numero, 5, e dove le strade sono polverose, le catapecchie sono basse e il più delle volte senza finestre. Posti angusti, bui, dove vivono sei o sette persone o, i più fortunati, con la loro famiglia da diversi anni.

Ci sono molti bambini nati qui, che corrono scalzi o si aggrappano al seno della madre, ignari che la mancanza di diritti umani li condanna a essere considerati apolidi: non sono riconosciuti né dal governo di Haiti né da Santo Domingo. I tagliatori vanno verso le loro casupole. Qualcuno spenderà soldi per comprare rum, altri pagheranno parte dei loro debiti o pregheranno gli spiriti vudu. Tutti alla fine si prendono il meritato riposo. Il sole è oramai sparito e il buio ha accolto il villaggio. Qualche fuoco illumina la facciata delle baracche.