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Nelle fiabe si legge la preistoria

Incontri – Nel suo ultimo libro dedicato alle fiabe l’etnolinguista Glauco Sanga ne fa risalire le origini al contatto e agli scambi tra le società di cacciatori-raccoglitori e quelle sedentarie dedite all’agricoltura
/ 20/09/2021
Sara Rossi Guidicelli

La fiaba magica è quella con l’intreccio: viaggio, prova da superare, premio. Non ha un autore, è stata raccolta da qualcuno (per esempio i fratelli Grimm, Afanasiev, Basile, un etnologo ecc.) che l’ha ascoltata da un informatore che a sua volta l’ha sentita e tramandata. Ci si è sempre chiesti: quando e come sono nate le fiabe? Perché sono così simili nei vari continenti?

Di tutti gli studiosi sull’origine delle fiabe, uno in particolare ha usato il metodo storico per scoprire questi misteri: si tratta del ricercatore russo del secolo scorso, Vladimir Propp. Egli ha dimostrato che la fiaba deriva precisamente da due riti preistorici che venivano praticati nelle società di cacciatori-raccoglitori (quindi società che esistevano in ogni continente della terra): il rito dell’iniziazione e il rito funebre, che in parte coincidono.

Proviamo a raccontare ciò che succedeva a un ragazzino che viveva fra i cacciatori-raccoglitori di dieci o ventimila anni fa: sappiamo che veniva condotto in una capanna nel folto della foresta dove si inscenava una «morte finta» di lui come bambino e poi la sua «rinascita come adulto». Gli si confidavano i segreti della comunità, gli veniva attribuito un animale guida, dei poteri, delle conoscenze, gli si applicava un marchio (tatuaggio, sfregio, menomazione), lo si faceva passare attraverso la pelle di un animale per renderlo parte del mondo della foresta, perché solo così un cacciatore poteva fare bene il suo mestiere. Poi, all’uscita dalla capanna, egli poteva considerarsi adulto e cioè poteva sposarsi. Abbiamo qui quasi tutti gli elementi della fiaba. Gli altri si trovano nel rito funebre, che perdurerà più a lungo di quello dell’iniziazione. Grosso modo questa è la matrice di ogni storia: il viaggio nel regno dei morti e il ritorno dai vivi con un potere. Questi stessi elementi si ripetono nelle fiabe di tutto il mondo: il distacco dai genitori, il bisogno di partire nella foresta alla ricerca di qualcosa, l’incontro con un animale che aiuta, il dono di un talismano dai poteri magici, la capanna nel bosco dentro la quale c’è una persona anziana a volte buona a volte cattiva, l’essere riconosciuti lì dentro come vivi in un regno di morti («ucci ucci sento odor di cristianucci» per esempio, perché i vivi vengono riconosciuti dai morti per il loro odore), una specie di morte (essere mangiati, rischiare la pelle, subire torture), i pericoli scampati, le prove riuscite e alla fine il ritorno più maturi di prima e con più ricchezze: un regno, una sposa, del denaro.

La fiaba nasce quando il rito decade: finché c’è il rito, questo è sacro e inviolabile. Quando non è più essenziale, allora può essere preso, narrato, abbellito, attualizzato, modificato, oggi diremmo «romanzato».

Come avviene questo passaggio è tema degli studi dell’etnolinguista Glauco Sanga, che segue le tracce di Propp e fa un passo avanti in un libro di recente pubblicazione: La fiaba. Morfologia, antropologia e storia, Cleup editore 2020. Propp aveva detto che quando gli uomini, cioè molti di essi, hanno cominciato a modificare la propria economia di vita, circa diecimila anni fa, passando da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori, essi hanno smesso di praticare il rito dell’iniziazione e hanno cominciato a trovare crudele ciò che invece quelle tribù di cacciatori facevano subire ai ragazzini nella foresta. Non essendo più un rito magico e fondamentale, poteva diventare materia di narrazione cioè da materia religiosa passava a materia artistica. Ma, se nel rito il fatto di passare dentro la pelle di un animale era proficuo per il futuro cacciatore, perché si appropriava dei segreti e della forza di questo animale, nella fiaba l’essere mangiato diventa un problema da risolvere. Si ribalta quindi il bene con il male: la persona che sta nella capanna e conduce il rito piano piano nel racconto spesso diventa nemica: orco, strega o mangiatore di bambini.

Glauco Sanga spiega: «Dobbiamo risalire alle prime società che diventano sedentarie; esse non ricordano più il rito dell’iniziazione come un fatto reale e quindi lo raccontano facendolo diventare “fantastico”, arricchendolo con la fantasia, e via via di bocca in bocca producono migliaia e migliaia di versioni sempre diverse, ma che mantengono solida la struttura: fanciullo, prove da superare, crescita. Io credo però che sia successo anche qualcosa d’altro. Quando l’uomo si è dato all’agricoltura la sua espansione è stata a macchia d’olio; gli archeologi hanno dimostrato che le popolazioni di agricoltori si espandevano perché facevano scorta di cibo, aumentavano il numero di figli, ogni figlio aveva bisogno di una terra da lavorare e faceva figli per avere più braccia e perché poteva sfamarli e così via. Questo non succedeva con le popolazioni nomadi di cacciatori-raccoglitori, che si spostavano per non sfruttare mai del tutto un territorio. Dunque l’agricoltura si espande e spazza via ciò che trova, scaccia e a volte uccide le altre popolazioni che trova sulla sua strada di espansione. Ma non le uccide tutte, né tutte si convertono all’agricoltura. Restano dei “marginali” nella foresta, delle tribù che ancora fino a qualche decennio fa vivevano ai margini della società produttiva come la conosciamo noi. Sono società che ancora vivono di caccia.

Si sa che esistevano dei contatti fra queste popolazioni: i contadini a volte prendevano in moglie una donna della società dei cacciatori (non come prima moglie, perché erano considerati esseri inferiori, ma magari come seconda, terza o quarta moglie); c’erano scambi di tipo economico fra i nomadi cacciatori e i sedentari agricoltori, per esempio barattavano farina contro selvaggina, ferro contro miele. I cacciatori-raccoglitori gestivano le questioni mediche e quelle magiche, conoscevano le erbe della foresta, raccontavano le storie degli spiriti. Potevano controllare gli elementi, ne possedevano i segreti. E io penso che sono stati loro, queste persone che per molto e molto tempo ancora hanno mantenuto il rito, ad averlo raccontato come una storia, un prodotto di intrattenimento. I cacciatori lavorano qualche ora al giorno e forse nemmeno tutti i giorni, la loro grande attività era raccontare. La mia ipotesi è che loro narrassero i propri miti agli agricoltori, perché là fuori non c’era l’interdizione magica che c’era all’interno della loro società. Così sono nate le favole sugli animali e le fiabe di magia. Le donne che andavano spose fra i contadini avranno raccontato del loro mondo ai loro figli sedentari e gli “stregoni” della foresta saranno venuti al villaggio per quello che possiamo immaginare come la prima forma di “spettacolo” di intrattenimento, il racconto di qualcosa di vero, spaventoso, esotico e meraviglioso che accadeva in un regno lontano lontano». Ancora fino agli anni Cinquanta, ricorda il professor Sanga, arrivavano persone da fuori, venivano nelle campagne a raccontare storie, in cambio di un letto e di un pasto caldo. Parlavano una lingua mista, e infatti le fiabe, a differenza delle leggende o delle storie locali, non sono mai interamente in un dialetto riconoscibile, ma nella lingua del viaggio.

Le fiabe come le conosciamo sono una delle migliaia di versioni che circolavano al momento della raccolta (o una fusione di alcune tra le più belle varianti, come per esempio facevano i Fratelli Grimm per fissare su carta le fiabe che ascoltavano «dal popolo»). Le fiabe si possono studiare a strati: un periodo storico dopo l’altro, indietro nel tempo fino ad arrivare al racconto del rito dell’iniziazione che praticavano tutte le società che vivevano di caccia. Se si tolgono gli elementi contadini, medievali, quelli che variano di più da una versione all’altra, restano quelli più antichi, legati alla caccia e al bosco. Questo succede quando si comparano fiabe simili di paesi diversi. Ancora negli ultimi decenni, spiega Sanga, si è potuto studiare popolazioni senza scrittura e distaccate dalle grandi civiltà: esse rappresentavano scene di caccia in cui il capo cacciatore incontra un bufalo che lo porta nel regno dei bufali dove gli viene consegnato un sacchetto con dentro dei poteri magici e così via. Una storia così, molti, moltissimi anni fa, è stata raccontata da generazioni e generazioni di cantastorie e di nonne, girando il mondo, trasformandosi in Cappuccetto Rosso inghiottita dal lupo, Giona o Pinocchio che entrano nella balena, Pelle d’Asino che si avvolge nel pelo dell’animale, I dodici corvi, La principessa rana e un’infinità di altre.

Le fiabe sono dunque sì un prodotto culturale e letterario, certamente hanno un’utilità pedagogica nello sviluppo del bambino, e sono prima di tutto belle; ma sono anche il frutto di una tradizione folclorica che testimonia del nostro passato più remoto: costituiscono il filo più preciso e antico che ci collega ai nostri avi delle caverne.