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Il paesaggio urbano selvatico

Intervista - A colloquio con l’architetto paesaggista Sophie Ambroise e il biologo botanico Nicola Schoenenberger per parlare della relazione tra uomo, città e mondo vegetale
/ 17/05/2021
Valentina Grignoli

Non cessa mai di affascinare il rapporto, la convivenza, la simbiosi a volte, tra mondo vegetale ed essere umano. Dal romanticismo tedesco, che toglie la Natura da quel ruolo di «oggetto» nel quale era stata relegata da Galileo in poi, in molti si sono chinati sull’importanza di un dialogo alla pari, una rivalutazione e riabilitazione del mondo naturale che ci circonda all’interno della società e dell’urbanizzazione. Parliamo qui non solo della questione del rispetto, ma di quel dialogo necessario tra le parti, dell’anelito umano verso un mondo naturale inteso come rifugio, scuola e libertà. Un contatto nel corso degli ultimi decenni favorito anche da un nuovo tipo di urbanesimo molto più sensibile al mondo vegetale.

In tempi odierni – durante i quali, va per lo meno accennato, il mondo naturale si è riappropriato degli spazi che l’uomo ha lasciato liberi causa di forza maggiore, o meglio pandemica – e alle nostre latitudini, una nuova occasione di riflessione su questo argomento è data dal LAC di Lugano, all’interno della sua rassegna Lingua Madre. Si tratta di Estado vegetal, opera della cilena Manuela Infante riadattata sotto forma di installazione sonora da Cristina Galbiati, che va a indagare proprio la logica antropocentrica proponendone un cambio di prospettiva. Un’installazione sonora scaricabile dal sito del LAC (https://www.luganolac.ch/lingua-madre) e ascoltabile in diversi luoghi naturali della città di Lugano.

Questo appuntamento ha attirato la nostra attenzione perché introdotto da una conversazione tra due professionisti luganesi che negli anni stanno tentando – riuscendoci – di riportare il mondo selvatico tra gli spazi verdi e blu addomesticati della città: l’architetto paesaggista Sophie Ambroise e il biologo botanico Nicola Schoenenberger.

Li abbiamo quindi incontrati per farci raccontare come botanica e architettura possono convivere oggi nelle nostre città.

Come descriverebbe il rapporto tra essere umano e mondo vegetale, Nicola Schoenenberger?
Spesso e volentieri nella nostra società si considera il mondo vegetale un mondo fatto di oggetti, quasi inanimato. Faccio un esempio: si crede che l’albero vada gestito, quindi si può spostare, lo si abbatte e lo si sostituisce. Ma in realtà stiamo parlando di un mondo vivente. La pianta è estremamente sensibile, e l’errore è proiettarvi la nostra visione, la nostra natura animale, perché è una forma di vita completamente diversa. Estremamente complessa tra l’altro, anche molto più dell’essere animale. L’essere umano ha infatti 25’000 geni, mentre la quercia che vediamo qui di fronte ne ha 100’000: deve fare tantissime cose! Se fossimo un po’ più umili e tentassimo di capire con curiosità qualcosa di diverso faremmo un grande passo.

Sophie Ambroise, quali sono quindi le alternative possibili per un maggiore equilibrio tra questi due mondi?
Frequentarci, assiduamente! Non vedere da un lato la città e dall’altra il selvatico. Ci sono tantissimi gradienti tra il mondo selvatico e quello antropizzato e sono quelli del vivere sulla terra. Sapendo di avere un limite comune tutti quanti, umani, vegetali e animali: la biosfera. Questa frequentazione quotidiana dovrebbe renderci più empatici, comprensivi, tolleranti. Concretamente, a livello svizzero, è quello che ci si pone anche con la legge sulla nuova densificazione e lo sviluppo centripeto di qualità, della quale si è parlato molto negli ultimi mesi. Una legge dove si auspica che all’interno di città sempre più dense uno degli scopi sia fare approdare la natura, senza espellerla continuamente mangiando sempre più territorio.
Il fatto di includere in dense urbanizzazioni ambienti naturali molto forti significa non più considerare la città come una rivincita sulla natura, ma piuttosto installarsi dolcemente su di essa. Città geografiche, città paesaggio quindi, con maglie verdi e blu (laghi e fiumi).
Dobbiamo stare attenti a non fragilizzare il paesaggio, ma reinstallarci, creare urbanità, rispettando le nuove geografie. Questo ci permetterà di guardare la natura con grande rispetto, perché parte del nostro quotidiano, e non più esistente solo all’esterno.

Questo succede anche nelle città della Svizzera italiana? Prendiamo Lugano…
Sì, il gesto della Foce del Cassarate, per esempio. Ridà un senso alla nuova Lugano che si sviluppa ormai lungo il meraviglioso asse fluviale, diventato baricentro della città, con tutte le attività pubbliche situate lungo questo asse: l’università, il liceo, il lido, il teatro, l’ospedale, Cornaredo. Tanti poli della vita urbana che vanno ad ancorarsi al Cassarate, facendo ridiventare l’acqua un elemento che unisce e non dal quale proteggersi, una vera linfa del corpo insomma. La Foce rifonda la città contemporanea, e poter pensare che il cuore della città è uno spazio vivo che include tantissime specie di flora e di fauna e tantissime emotività nuove nei comportamenti e nelle delle persone… trovo che sia magico.

Nicola Schoenenberger, oltre al progetto della Foce, di cui Sophie si è occupata, ci sono altri esempi concreti?
La questione della natura negli ambienti urbani, questa sensibilità, non riguarda secondo me dei singoli progetti, ma è come un layer, uno strato, che deve essere applicato su qualsiasi attività della città. Un discorso di fondo soggiacente, un criterio di base che si declinerà in varie forme. I processi naturali particolarmente visibili alla foce agiscono anche in altre zone della città: il selciato del centro, il tetto piatto non gestito per anni, il cantiere che sta lì per una stagione. Viene colonizzato, da qualcosa di effimero.

A livello urbanistico cosa significa, secondo voi?
Nella nuova urbanità dobbiamo cercare di creare degli spazi, dei luoghi, che accolgano la vita. Installare le dinamiche, a breve o lungo termine. È una questione di sguardo: si pensa che il prato verde falciato regolarmente sia natura, ma non è così! Non c’è una dinamica vegetale, è di una grande povertà di vita. Io credo che sia una questione di cambio di sguardo; capire che dietro ambienti in apparenza non così curati, si nascondano grandi potenzialità di vita.
Spesso c’è questo malinteso estetico: la foglia per terra è brutta, se rinsecchita ancora peggio. Ma se lasci un angolo del parco fiorire liberamente, è uno scenario meraviglioso, bellissimo.

Quindi c’è del lavoro da fare a livello educativo, culturale, Sophie Ambroise?
Sì, la cultura! Non presentare l’ambiente per quello che è ma per quel che evoca, che porta con sé a livello di emozioni e di storia. Questo si chiama paesaggio, ed è la sua mediazione che permetterà all’uomo di tornare in contatto con la natura.
Dopo l’esperienza della Foce, io mi dico andiamo avanti, continuiamo a trasformare le rive in luoghi dove la popolazione si possa identificare, dove grazie alla natura ci sia una mediazione tra la città sempre più densa e il quotidiano. Qui a volte si fa un po’ fatica. Ci sono tante premesse, ma bisognerebbe anche farsi coraggio e osare.

E nel resto della Svizzera italiana?
A Bellinzona sta accadendo qualcosa di meraviglioso. Come zona test del progetto Parco Saleggi-Boschetti abbiamo iniziato a intervenire in tre punti, Torretta, scuole e piscine. Abbiamo allargato il fiume Ticino creando nuove anse accessibili e fruibili dalla popolazione. La gente ha improvvisamente scoperto di avere un fiume! Sono interventi che rispetto a quello che danno necessitano di investimenti relativamente bassi, va detto.
Se guardiamo i quadri di Turner, lo capiamo. Lui si metteva vicino al fiume Ticino e in mezzo ai movimenti dell’acqua disegnava i castelli di Bellinzona. Si situava nel cuore del fiume. Oggi dovremmo recuperare l’energia di rimetterci nel cuore degli elementi naturali e ripensare la città a partire da lì.