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Danza e vita di Nureev

Sergio Trombetta lo ricorda nel 30. anniversario della scomparsa
/ 02/01/2023
Daniele Bernardi

Se dopo «un secolo di incontrastato regno della ballerina» grazie a Vaclav F. Nižinskij nel '900 si vide apparire «un modello di maschio assolutamente inedito nei teatri di danza», possiamo dire che con Rudolf Nureev (Lago Baikal-Irkutsk, 1938 – Parigi, 1993) – la cui carriera fu ben più lunga di quella del suo sfortunato predecessore – tale ruolo si consolidò appieno.

Figura tragica, dalle origini dolorose, segnata dal peso dell'epoca e da un privato estremamente duro, com'è risaputo Nureev era di carattere non facile e sulla sua schiacciante personalità sovente si è chiacchierato a lungo. Ciò, come sempre capita in questi casi, mette in ombra l'autentico valore dell'artista e crea, al contempo, una sorta di alone mitico-maledetto attorno al suo personaggio.

Più interessante oggi, nel trentennale della scomparsa del celebrato danzatore e coreografo, interrogarsi invece sulle ragioni della sua importanza così come sul decisivo contesto storico in cui la sua figura si impose; non va infatti dimenticato che se gli albori del secolo videro fiorire e sfiorire Nižinskij mentre il sogno dell'impero russo andava man mano sgretolandosi, gli anni della Cortina di ferro sono quelli in cui l'espatriato Nureev affermò con veemenza la sua arte.

Per raccontare tutto questo abbiamo invitato a colloquio Sergio Trombetta, giornalista e critico di danza laureato in lingua e letterature russe, autore, nel 1993, proprio di un libro sul grande ballerino di origini tatare e di una biografia del sopraccitato Nižinskij di recente ripubblicazione presso l'editore Lindau.

Per prima cosa vorrei interrogarla su ciò che ha caratterizzato sia il percorso del Nureev danzatore che coreografo. Se con Nijinsky la faccenda appare più chiara – l'imporsi dell'androginia sulla scena, l'irrompere di forme barbare e non aggraziate, l'uso asimmetrico dello spazio, l'utilizzo del pavimento così come della caduta, etc. – per ciò che concerne Nureev la questione sembra diversa. Cosa può dirci al riguardo?
Rispetto a Nijinsky, dal punto di vista coreografico Nureev non è stato un innovatore. Nijinsky aveva di fronte un terreno fertile e tutto ciò che faceva rappresentava una novità. Nureev si è invece mosso su un sentiero di danza classica e contemporanea già fortemente consolidato. Per un ballerino col suo tipo di formazione sarebbe stato difficile fare altrimenti. Al di là delle sue doti, la sua importanza è stata quella di creare un'immagine greater than life: è stato un personaggio importante dal punto di vista mediatico. La sua vita è stata un film, un balletto. Egli è entrato da protagonista nella storia della danza. La sua celebre fuga del 1961 – quando, ricordiamolo, lasciò la compagnia Kirov stabilendosi in occidente – fu in nome della libertà di danzare, poiché era ben conscio che rimanendo a Leningrado non avrebbe potuto mettersi alla prova coi più grandi coreografi come poi avrebbe fatto.

Nella sua memoria di spettatore, quale fu a suo avviso la creazione, o le creazioni, in cui Nureev espresse al massimo i suoi mezzi, la sua identità e la sua storia? Ce ne potrebbe parlare?
Per ragioni anagrafiche e di vita, ho visto danzare Nureev al Teatro Regio di Torino, al Teatro Smeraldo di Milano quando già non aveva più l'energia e la freschezza che gli avevano dato fama. Ma esistono moltissimi materiali video che testimoniano della sua bravura, del suo appeal e della sua presenza scenica: come ad esempio quelli che immortalano la sua variazione de Il corsaro di Adolph Adam. 

La vita di Nureev è stata, come quella di altri artisti di epoca sovietica, difficile e segnata dall'esilio. Tratteggiamola per sommi capi.
Per quanto riguarda l'esilio, difficile pensare che la sua scelta di abbandonare il paese fosse veramente politica, anche se all'epoca fu facile interpretarla così. Era nato su un treno sul quale la madre viaggiava per raggiungere il marito. Si avvicinò tardi alla danza. Ebbe un'insegnante a Ufa, che successivamente lasciò per andare a Leningrado, dove la leggenda vuole passò una notte all'addiaccio prima di essere accolto alla scuola del Teatro Mariinskij. Una vita difficile, sì, ma soprattutto perché sentiva di non poter danzare come avrebbe voluto. Da qui la sopraccitata fuga del '61, che lo vide rimanere fra gli amici parigini ai quali si era legato durante la tournée (fra questi, tra l'altro, c'era Pierre Lacotte e l'immagine di Nureev che salta la barriera fa più parte della mitologia che della realtà: semplicemente al momento di imbarcarsi prese un'altra strada). Poi iniziarono i suoi esperimenti, le sue prove con un repertorio a lui sconosciuto e il suo amore apertamente vissuto con Erik Bruhn, danzatore-étoile del Royal Danish Ballet. Fu un successo dopo l'altro, un perenne muoversi fra le capitali europee. Ci fu la partnership con Margot Fonteyn, la direzione del Balletto dell'Opéra di Parigi e, successivamente, il mettersi alla prova come direttore d'orchestra – con scarso successo – e come coreografo. E se le sue coreografie non passeranno alla storia, certamente il loro ruolo fu quello di far conoscere in Occidente titoli come La Bayadère o Raymonda, opere che oggi fanno parte del patrimonio di tutte le grandi compagnie di danza classica. Una piccola nota: nel bel film di Cédric Klapisch La vita è una danza – in originale En corps – a un certo punto la protagonista ha una visione: vede apparire le ombre delle bayadères nella periferia di Parigi. Ebbene, senza l'opera di Nureev queste ombre non avrebbero potuto essere citate.

Lei è uno studioso di danza e un grande conoscitore di cultura russa. Oggi che a causa della guerra in Ucraina la patria di questi giganti del passato è nuovamente isolata dal resto del pianeta, come vive il mondo della danza – e più in generale quello dell'arte – tutto questo? Siamo di fronte a una nuova epoca di esuli e perseguitati?
Oggi il potere russo è molto simile a quello repressivo dell'Unione Sovietica, ma è anche più “furbo”. Per esempio Svetlana Zacharova ha danzato parecchio in Occidente – dove, va ricordato, non è molto persona grata per il suo endorsement a Putin – ed è sempre tornata a danzare a Mosca. Esempi di danzatori perseguitati non mi pare che ce ne siano, al momento. Esule, ma senza gesti clamorosi, è sicuramente Ol'ga Smirnova, che ha deciso di lasciare il Bolshoi per il Balletto nazionale olandese. Più difficile da definire la posizione di Jacopo Tissi, a cavallo fra il Bolshoi e la Scala di Milano.