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Dietro le quinte degli Oscar

<i>The Whale</i> con Brendan Fraser, premiato come miglior attore, è ora nelle sale ticinesi
/ 20/03/2023
Nicola Mazzi

Everything Everywhere All at Once (del collettivo The Daniels), che la scorsa settimana si è portato a casa ben sette Oscar, è il film emblema di questo momento storico, sostanzialmente per due motivi. Il primo è legato al cambiamento che sta vivendo il cinema. Le sale si riempiono solo con i supereroi della Marvel, con la saga di Avatar e con qualche raro revival che riporta al cinema le generazioni dei quarantenni come Top Gun. Ma i classici film, quelli con una storia che ti prende e che ti resta in testa per giorni, fanno più fatica oppure hanno trovato sulle piattaforme lo spazio giusto. Ecco, Everything Everywhere All at Once, è un tentativo di arrivare al grande pubblico combinando il videogame, o più in generale il multiverso, con problematiche sociali tipiche di un film d’autore. Gli incassi (oltre 100 milioni per un film costato 20) e i numerosi premi gli stanno dando ragione.

Il secondo motivo è legato al politicamente corretto che contraddistingue gli Oscar. Si sa che da sempre questi premi seguono le tendenze del momento più che la qualità delle opere. Se infatti lo scorso anno a vincere il premio per il miglior film fu Coda (su una famiglia sorda), nel 2019 era stato Green Book (sulle discriminazioni razziali) e nel 2017 fu Moonlight (sempre sulle discriminazioni razziali alle quali si aggiunge anche il tema omosessuale). Ecco quindi, che mancava la «quota» asiatica, colmata, quest’anno, dall’opera dei The Daniels. Certo, nel 2020 avevamo visto vincere la statuetta a un altro film asiatico (Parasite, già trionfatore a Cannes), tuttavia in quell’occasione non fu premiata la quota, ma la qualità del film: l’eccezione che conferma la regola.

Ad assodare questa tendenza, altri premi. In particolare, la sorpresa tedesca targata Netflix: Niente di nuovo sul fronte occidentale. L’adattamento del romanzo pacifista di Erich Maria Remarque ha vinto quattro statuette tra cui quella per il film straniero. Un chiaro messaggio dell’Academy alla Russia per uno stop al conflitto in Ucraina. Messaggio che diventa un grido ancora più forte con il premio dato al miglior documentario vinto da Navalny e dedicato al principale oppositore interno, e ora in prigione, di Vladimir Putin.

La 95esima edizione degli Oscar è stata anche quella della consacrazione di una giovane casa di produzione e distribuzione: la A24. Un nome che i tre fondatori americani inventarono quando erano in viaggio in Italia proprio sull’autostrada A24 che collega Roma a Teramo. Fondata nel 2012, in poco più di 10 anni è arrivata a sovrastare le major sostenendo film d’autore che avessero anche un richiamo popolare molto forte (soprattutto rivolto al pubblico più giovane) come Spring Breakers, Bling Ring, The Witch fino ad arrivare al citato e premiato Moonlight. Quest’anno ha fatto incetta di statuette: oltre alle sette di Everything Everywhere All at Once, la A24 si è portata a casa anche i due premi a The Whale. Davvero niente male per una casa di produzione che si sta muovendo al meglio a Hollywood e ha capito come attirare dalla sua parte i giurati.

Proprio a The Whale dedichiamo qualche considerazione supplementare, anche perché è in programmazione nelle sale della Svizzera italiana e merita una visione. L’ultimo film di Darren Aronofsky è centrato tutto sull’obesità di Charlie (Oscar a un ottimo e credibile Brendan Fraser) imprigionato in una casa dalla quale non esce praticamente mai. La pellicola è una trasposizione teatrale e lo si nota molto bene con entrate e uscite di alcuni personaggi (l’infermiera, il giovane missionario, la figlia e l’ex moglie) dalla casa, proprio come in un teatro. L’unica presenza fissa e mastodontica, come una balena spiaggiata, è appunto il protagonista. Il tutto si svolge seguendo le regole aristoteliche dell’unità di luogo, tempo (si svolge in una settimana) e azione (le trame secondarie restano sullo sfondo). The Whale è un passo avanti nelle tematiche della filmografia del regista perché non vuole dirci, come nelle sue opere precedenti (vedi The Wrestler, Il cigno nero o Requiem for a Dream) che l’essere umano tende ad amare ciò che lo distrugge, ma che siamo noi stessi la causa della nostra disfatta e che, allo stesso tempo, possiamo diventare pure la nostra salvezza. In questo senso tutti, a loro modo e senza successo, cercano di salvarlo dalla sua espansione fisica che lo porterà, inevitabilmente, all’autodistruzione, ma solo lui ha il potere di uscirne vincitore.

E proprio come il capitano Achab (Moby Dick è citato più volte nel film) che resta chiuso nella sua cabina per quasi tutto il romanzo e instaura una lotta impari con la balena bianca simbolo del male, anche Charlie deve combattere la balena che c’è in lui per poter trovare la propria salvezza.