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Mascolinità plurale

Performer originario di Arogno, Arno Ferrera spiega come nascono i suoi spettacoli, in particolare <i>Cuir</i>
/ 31/07/2023
Giorgia Del Don

È dal suo appartamento di Anderlecht, quartiere a sud-ovest di Bruxelles, sua città d’adozione, che Arno Ferrera, performer originario di Arogno, ci ha parlato di cosa la creazione rappresenti per lui, della necessità di concepire la mascolinità al plurale e del bisogno di tenerezza che accompagna ognuno di noi. Il punto di partenza della nostra conversazione è Cuir (nella foto, un momento dello spettacolo), il suo ultimo spettacolo dove condivide la scena con il collega-amico Gilles Polet. Fra portés acrobatici sapientemente orchestrati, imbracature di cuoio a metà strada fra mondo animale e universo BDSM (acronimo che sta per Bondage and Discipline – schiavitù e disciplina; Dominance and Submission – dominanza e sottomissione; Sadism and Masochism – sadismo e masochismo), rimandi alla mitologia e tocchi pop dal sapore anni ’80, Cuir invita lo spettatore a confrontarsi con i propri limiti, ad abbandonarsi a proposte inconsuete e stuzzicanti.

Qual è il punto di partenza del progetto?
Sapevo di voler utilizzare la barda, o imbracatura, perché è uno strumento abbastanza arcaico. Per me, l’oggetto non si riferisce tanto alla cultura BDSM quanto alla bardatura degli animali utilizzati per arare i campi. A partire da questo oggetto volevo lavorare sui rapporti di dominazione e di sottomissione nelle relazioni umane. Ho iniziato la mia ricerca intervistando, in Belgio e Francia, chi ancora oggi ara i campi grazie agi animali. Gli animali, il loro lato istintivo e radicale, hanno sempre ispirato il mio lavoro. Sono nato ad Arogno, un villaggio di montagna, quindi ho da subito provato un’empatia forte verso gli animali che credevo, in modo un po’ ingenuo, sfruttati in ambito agricolo. Discutendo con gli agricoltori ho capito che il loro rapporto con l’animale non si basa sulla dominazione, ma sulla cooperazione, bisogna instaurare una relazione di fiducia molto forte. In un secondo tempo mi sono chiesto come trasporre questo rapporto di cooperazione, fra uomo e animale, a una relazione esclusivamente umana. Il lavoro sviluppa la questione della dominazione e della sottomissione ma non in un’ottica di sopruso. Quello che voglio evidenziare è l’aspetto collaborativo che sottostà a queste dinamiche. Lo scopo di Cuir non è rigettare questi rapporti ma sottolinearne l’aspetto evolutivo, l’inversione dei ruoli, la capacità di assumere e abbracciare entrambe le posizioni.

Su cosa si basa, dunque, la sua la relazione con gli altri performer nello spettacolo?
Questo tipo di lavoro si basa su un forte rapporto di fiducia. Entrambi i partner devono essere disposti a entrare nella sfera dell’intimo. Senza una vera relazione fusionale si tratterebbe semplicemente di recitare, nel senso negativo del termine. Non è un progetto che si può fare a metà, altrimenti la lettura sarebbe diversa. Siccome con Gilles formiamo un buon binomio, lavoreremo ancora insieme a una nuova produzione, Armour. Sono anche artista associato alle Halles de Schaerbeek e questo mi permette di sviluppare progetti come quello con Gilles, ma anche altri in ambito carcerario, qui a Bruxelles dove vivo.

Interessante, ci dica di più in merito.
In Belgio e in Francia, ho sviluppato quattro progetti nell’ambito della psichiatria carceraria che mi hanno permesso di capire quanto il mio interesse nei confronti di progetti artistici in strutture «chiuse» sia forte. Lo scambio con i detenuti è importante in quanto non nutre solo la mia pratica artistica ma mi permette anche e soprattutto di incontrare coloro che, dietro le sbarre, diventano invisibili. La mia pratica gravita intorno al tatto, al corpo a corpo, ci si può quindi immaginare le “difficoltà” incontrate nel trasporla in un universo carcerale maschile dove i detenuti associano spesso il toccare all’abuso di potere, ma anche all’abuso sessuale. Introdurre il corpo a corpo, l’intimità in quel contesto è estremamente delicato, è qualcosa che dev’essere sviluppato con moltissima cura.

Come ottiene la fiducia dei detenuti, come li convince ad abbandonarsi alla proposta artistica?
Ognuno ha il suo protocollo, la sua porta d’entrata. Il mio consiste nello sfiancarli, nel sorprenderli fisicamente con una pratica che non conoscono ancora. Stancarsi permette già di entrare in una dimensione di abbandono, di liberarsi da meccanismi automatici atti a mostrare la propria forza. Per i detenuti, la stanchezza è liberatoria perché permette loro di disconnettersi per un momento dalla loro quotidianità ma anche di riconnettersi con il proprio corpo. La sfida della prima settimana di intervento in carcere è anche quella di costituire un gruppo non giudicante, un safe space dove poter interagire differentemente. La mia speranza è che un giorno, quando queste persone saranno scarcerate, potranno reinserirsi nella società. Dopo aver costituito un gruppo di lavoro più o meno solido, bisogna creare un linguaggio comune al gruppo. Infine, se si vuole creare insieme una performance occorre lavorare su una scrittura che sia accessibile a tutti.

Cos’è per lei, che significato ha la creazione artistica?
Ciò che difendo è la creazione artistica come qualcosa che deve venire dalla pancia. Le mie proposte devono potenzialmente toccare persone molto diverse. Bisogna pensare all’accessibilità ma non come riduzione dell’esigenza artistica. Semplicemente il pubblico non dovrebbe sentire il bisogno di essere formato e informato prima dello spettacolo per potersi connettere a ciò che succede in scena. Nel caso di Cuir, volevamo che lo spettacolo fosse semplice ma non facile, uno spettacolo che ognuno può leggere in modo diverso secondo il proprio vissuto. La scrittura drammaturgica è chiara per noi, ma è lo sguardo che lo spettatore posa sul lavoro a dargli senso.

Anche se destinato a pubblici molto diversi, Cuir attira molti spettatori appartenenti alla comunità LGBTIQ+ ed è presentato in numerosi festival queer. Se lo aspettava?
Per me è importante indagare il concetto di mascolinità, che intendo al plurale. Affinché avvenga un vero cambiamento di paradigmi è necessario rompere alcuni schemi che spingono a interpretare la mascolinità a senso unico, una mascolinità potenzialmente tossica, pericolosa e dominante. Il mio scopo è mettere in discussione questa versione ristretta e non inclusiva. Sono molto contento che Cuir sia selezionato in festival queer dove capita anche che sia lo spettacolo d’apertura.