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Asor Rosa e quell'idea di intellettuale militante
Con la sua scomparsa il panorama letterario e culturale italiano perde una delle sue voci più importanti
Natascha Fioretti
Quella tra Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari è stata un’amicizia lunga più di un secolo, «un’amicizia della quale mi è impossibile dire» ha scritto il filosofo commosso sulle pagine di «Repubblica» ricordando l’intellettuale, storico, critico letterario, saggista e politico italiano scomparso mercoledì scorso all’età di 89 anni. Qui, nella foto che abbiamo scelto, li vediamo ritratti insieme a Bologna nel settembre del 1980 alla Festa dell’Unità. Nato a Roma il 23 settembre del 1933 da una famiglia di umili origini, laureato all’Università La Sapienza dove dal 1976 al 2003 è stato professore ordinario di Letteratura italiana, militante di sinistra, iscritto nelle fila del Pci, Asor Rosa è stato per tutta la vita, nel panorama culturale italiano, un intellettuale impegnato, critico e controcorrente. «Alberto era un pensatore che sapeva e voleva sporcarsi le mani» così lo ha ricordato il filosofo Mario Tronti, amico di una vita insieme a Eugenio Scalfari, sul «Riformista». Penna prolifica e versatile, Asor Rosa spaziava con disinvoltura tra i generi: dalla critica, alla saggistica, alla narrativa. Tante le sue opere, la prima, fondamentale, Scrittori e popolo (Samonà e Savelli, 1965), l’ultima L'eroe virile. Saggio su Joseph Conrad (Einaudi, 2021). Ripercorriamo i capisaldi del suo pensiero e della sua opera con Stefano Prandi, Direttore dell'Istituto di studi italiani dell’USI.
Professor Prandi, cosa perde il panorama letterario italiano con la scomparsa di Asor Rosa?
Innanzitutto, come ha scritto Corrado Bologna nell’Introduzione al volume dei Meridiani Scritture critiche e d’invenzione (2020), Asor Rosa ha saputo esplorare a fondo il concetto di classico letterario, mettendone in luce non tanto, come ci si aspetterebbe, i suoi aspetti di continuità rispetto alla tradizione, ma il suo rivoluzionario tendere alla «radice delle cose», proprio «come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto» (Il canone delle opere, 1992). Ecco quindi un primo aspetto distintivo della figura di Asor Rosa, e il grande vuoto che lascia nel panorama critico: la capacità di saper discendere alle origini profonde delle questioni letterarie attraverso un’«archeologia del sapere» che non si accontenta di rimandare alla storia, ma ne coglie e valorizza dati altrimenti neutri.
Potremmo dire che con lui se ne va una certa idea di fare critica letteraria? Qual era la sua forza, il suo tratto distintivo?
Dietro questa visione critica, di cui dicevo, sta una concezione forte della letteratura come espressione della capacità dell’uomo di tenere insieme le molte diversità culturali e disciplinari che si manifestano nella storia, di saper creare interconnessioni che offrono un significato a un insieme altrimenti frammentario e disorientante. In tempi che vedono, all’apparenza, la cultura umanistica retrocedere di fronte a quella delle scienze esatte, l’opera di Asor Rosa ribadisce con forza la centralità della letteratura come universale strumento di conoscenza. La letteratura getta un ponte tra l’uomo e le sue differenti esperienze nel tempo mettendole in prospettiva, ed è qui che il critico oltrepassa i propri limiti di «tecnico della parola» e si mostra libero dalle gabbie dell’ideologia per abbracciare una più ampia dimensione etico-politica: come scriveva Calvino, la letteratura consente di guardare più a fondo la realtà. Il lascito più prezioso che ci ha consegnato Asor Rosa mi pare, in conclusione, sia questa portata universale dell’interpretazione letteraria.
La giornalista Simonetta Fiori ha curato l’intervista Il grande silenzio. Intervista agli intellettuali uscita nel 2009, che tocca un punto fondamentale del pensiero critico di Asor Rosa, cioè il rapporto tra cultura, società e potere e le responsabilità degli intellettuali. È ancora possibile al giorno d’oggi per questi ultimi essere «militanti»?
A questo proposito occorre fare una piccola premessa: di norma si associa la posizione di Asor Rosa al marxismo, ma sarebbe più esatto parlare di una combinazione, apparentemente paradossale, di quest’ultimo con il pensiero di Nietzsche. Come il critico scrive in Elogio della negazione (1965), l’intellettuale, che vive in un sistema capitalista in cui tutto è preordinato alla produzione e al consumo, deve saper ricorrere appunto alla negazione, introducendo elementi di contraddizione che restituiscano l’individuo alla sua autonomia e libertà. Anche il volume Scrittori e popolo (sempre del 1965) non è inquadrabile in un’ottica di semplificazione ideologica: esso esordisce infatti con l’affermazione «il populismo è morto, e noi spieghiamo perché». Il saggio, che dimostra «la limitatezza provinciale e conservativa dell’esperienza populistica in Italia», tracciando una parabola che da Vincenzo Gioberti arriva fino a Pasolini, susciterà non per nulla la violenta reazione di critici ortodossi come Carlo Salinari, espressione della linea del PCI. A mezzo secolo di distanza, Asor Rosa, tornando sulle questioni del volume del ’65, intitolava significativamente il suo nuovo saggio Scrittori e massa (2015), e vi registrava la scomparsa non solo del populismo, ma del popolo stesso. Le ragioni additate dal critico sono varie. In primo luogo borghesia e classe operaia sembrano aver progressivamente perduto le proprie caratteristiche distintive e il senso stesso della propria identità; secondariamente le tradizionali élite intellettuali tendono a perdere la loro funzione di coscienza della collettività e a divenire via via sempre più impotenti, accompagnandosi a un generale indebolimento del sistema democratico in Occidente. La massa è dunque il luogo in cui i già ricordati concetti di negazione e differenza tendono a essere cancellati nell’indistinzione omologante, in cui l’individualità del soggetto si dissolve all’interno di comunità di consenso più o meno ampie. Ciò che soprattutto è venuto meno, scrive Asor Rosa, «è l’idea che il colloquio fra critico e autore serva davvero»; la capacità di intermediazione della critica cosiddetta «militante», insomma, sembra essersi esaurita.
Torniamo al grande silenzio...
Non si tratta, come afferma il critico in questo testo, dell’esaurirsi dell’attività intellettuale tout court, ma della fine delle sue tradizionali funzioni così come si sono manifestate nel corso di una parabola secolare, dall’Illuminismo fino agli anni Settanta del Novecento. Sembra, infine, sempre più difficoltoso assegnare un senso alla storia. Aveva scritto Montale nel Quaderno del ’72, proprio riferendosi al critico: «Asor, nome gentile (il suo retrogrado / è il più bel fiore) / non ama il privatismo in poesia. / Ne ha ben donde o ne avrebbe se la storia / producesse un quid simile o un’affine / sostanza, il che purtroppo non accade»; l’ironia si sarebbe trasformata in consenso, se solo il poeta avesse potuto leggere quanto Asor Rosa scriverà anni dopo.
Un altro dei temi centrali dell’opera di Asor Rosa è stato il rapporto tra letteratura e identità nazionale, discusso soprattutto nell’opera Genus italicum uscita nel 1997. Cosa può dirci al riguardo?
La riflessione di Genus italicum parte dall’individuazione di un «gène nazionale» italiano che si fonda sulla condivisione di un sistema di valori («un patrimonio di concetti, di atteggiamenti, di comportamenti e di caratteri che danno un tono inconfondibile all’insieme») e di una lingua che, da Dante a Galileo, diviene potente fattore unificante. Successivamente, secondo Asor Rosa, sorge una seconda fase della storia letteraria, in un quadro pesantemente condizionato dalla Chiesa cattolica e dalla progressiva marginalizzazione della cultura italiana in Europa. In Dante, Petrarca e Boccaccio la successione degli eventi storici italiani si mostra come caduta, come allontanamento dagli ideali: proprio per questo diviene così importante, in tutti e tre gli autori (e lo sarà per buona parte della tradizione letteraria italiana), la figura dell’esule e dell’apolide, che incarna una mancata assimilazione rispetto ad un’identità «nazionale». Sarà poi nel volume Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta (2019) che Asor Rosa tratteggerà, attraverso la figura tragica del Segretario Fiorentino, la condizione di disunione come tratto caratterizzante e permanente della situazione italiana: alle vicende cinquecentesche che porteranno alla spartizione dell’influenza francese e spagnola nella Penisola seguirà il tentativo di riunificazione dell’età risorgimentale, di cui poi si approprierà, tradendolo, il Fascismo. Ma è proprio all’interno di questo scenario così contrastato e conflittuale che la civiltà letteraria italiana ha espresso scrittori come Leopardi e Calvino – le cui Lezioni americane sono definite da Asor Rosa «Le Operette morali del XX secolo» – che hanno saputo gettare uno sguardo straordinariamente lucido sulle caratteristiche uniche della cultura e della letteratura italiana. E non è certo un caso che questi due autori costituiscano un punto di riferimento costante dell’opera di Alberto Asor Rosa.