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Le nuove povertà/42
Lidia Ravera
Tom aveva imboccato Ponte Garibaldi e si stava dirigendo verso via Arenula. Aveva il passo deciso di uno che sta andando a un appuntamento. E doveva essere in ritardo, perché aveva aumentato la velocità.
Anche Betta prese a camminare più svelta, rischiando, perché marciava sui sette centimetri di tacco degli stivaletti blu, scelti nella speranza di incontrare il vecchio.
Senza fermarsi Tom estrasse dalla tasca della giacca il cellulare, digitò senza rallentare, tenne il telefono premuto contro l’orecchio, senza parlare.
Betta guardò il suo, di cellulare, sperando che suonasse.
Le sarebbe piaciuto scoprire che lui stava chiamando lei, senza sapere che li dividevano pochi passi. Avrebbe corso fino a raggiungerlo, l’avrebbe abbracciato da dietro.
No, non era a lei che stava telefonando. Contemplò, per un attimo, lo schermo immobile e muto. Perse il ritmo del passo, quando rialzò gli occhi Tom stava entrando in una agenzia della Deutsche Bank.
Certo, pensò con un tuffo al cuore: è lì che lavora la tipa che gli ha garantito il fido, il prestito o quello che era. La sessantenne ancora bella, biondagrigia naturale e tanto intelligente.
Si chiese se aspettarlo fuori, far irruzione nella banca o tornarsene a casa.
Decise che se ne sarebbe andata, ma non subito.
Per poter sostare accanto all’ingresso dandosi un tono prese a digitare messaggi. Scrisse a Sara: «Amore mamma psyc. Formaggio frigo». Poi incominciò a far scorrere i contatti memorizzati. In ordine alfabetico. Ada Adele Barbara. Ecco, a Barbara avrebbe potuto mandare un messaggio: era stata con lei alla Memè Perlini.
Si erano simpatiche.
Betta era nettamente più bella, Barbara più brava.
Era finita a fare teatro per ragazzi in uno scalcinato ex oratorio della circonvallazione gianicolense, non era esattamente Broadway, ma Barbara era il tipo che una mano te la dava, se avevi bisogno.
Stava scrivendo concentrata:
«Ehi, mi dicono che la tua Biancaneve è super… c’è per caso un settenano per me?»
Dovevi essere spiritosa. Sempre. Soprattutto quando chiedevi aiuto.
«Che ci fai tu qui?»
La voce era la voce di Tom, e in effetti Tom era davanti a lei.
Solo.
Betta arrossì. Scelse il registro aggressivo, come sempre quando non aveva voglia di dare spiegazioni:
«Ti ha dato buca la biondogrigia?»
«Che… ci… fai… tu... qui?»
Scandire le parole, ripetere la domanda.
Scaricare la rabbia. Non dire la verità. La verità è che Noemi è sparita. Non ha dato più segni di vita.
E allora hai dovuto andare a cercarla sul posto di lavoro ed è stato imbarazzante, umiliante, inutile.
C’era, ma non l’ha ricevuto.
La dottoressa è occupata, si scusa.
Betta notò che Tom aveva un’espressione scura, tesa.
Decise di confessare, ma scelse il suo tono da bambina.
«Ti ho pedinato.»
«Sei completamente cretina?»
Betta provò a sorridere:
«La aspetti fuori? Si sta incipriando il nasino? Dove andate a pranzo?»
Tom la guardò, a lungo, severo, come per misurare una sua imperdonabile colpa, poi le voltò le spalle e incominciò a camminare, a lunghe falcate furiose, verso casa.
Betta dovette correre per raggiungerlo.
Il tacco dello stivaletto di sinistra si piantò in un affossamento della pavimentazione, torcendole con violenza una caviglia.
Urlò: «Fermati stronzo, mi sono fatta male!»
Tom si fermò, rallentando progressivamente il ritmo dei passi come per inerzia. Tornò indietro adagio. Si chinò su sua moglie che era seduta in terra, gli occhi lucidi di lacrime.(42 – Continua)