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Enola Holmes e Lidia Poët, paladine della giustizia

Film - Dal Regno Unito all’Italia, il femminismo vissuto sin dai suoi esordi da protagoniste letterarie e reali, messe a confronto
/ 20/03/2023
Manuela Mazzi

Il femminismo che piace alle «non- femministe». È quello ribelle, non patetico, non vittimistico, ma incazzato. Coraggioso, finanche oltraggioso. Come si intuisce essere l’idea di controllo che percorre per intero sia i due lungometraggi dedicati a Enola Holmes sia le puntate televisive che compongono la recentissima serie intitolata La legge secondo Lidia Poët (su Netflix dal 15 di febbraio). Entrambe le pellicole hanno per protagoniste giovani donne dal carattere forte. Entrambe sono d’ambientazione storica. Entrambe sono basate sulla tensione del giallo avventuroso. Entrambe, concentrate sulla fatica di farsi valere del «sesso gentile». Entrambe le donne sono individualiste.

Entrambe possono avvalersi di un fratello che alla fine le sostiene. Entrambe sono stimate almeno da un esponente dell’altro sesso più emancipato dei propri congeneri (ci piace molto la figura di Jacopo, il giornalista della «Gazzetta di Torino» che appoggia Lidia Poët), quasi a dire che senza il maschio, comunque, forse non ce l’avremmo potuta fare (ma non è ovviamente questo l’aspetto che piace alle «non-femministe», le quali prediligono la conquista alla lamentela, la concretezza alle chiacchiere da social).

Il primo, ambientato nel mese di luglio del 1900, vede Millie Bobby Brown nei panni di Enola, sorella del mitico Sherlock, partire dalla campagna inglese per finire a Londra (in Enola Holmes II, il sequel), nel periodo dello sciopero delle fiammiferaie (che in realtà ebbe luogo nel 1888). Enola, spesso in brache invece che in sottane, indaga non meno del fratello che pure compare qua e là, entrambi aiutati dalla loro madre, femminista tra le più agguerrite, a capo di un movimento sotterraneo sempre più dirompente.

Nel secondo, La legge secondo Lidia Poët, ci troviamo più o meno nello stesso periodo, ma siamo a Torino e veniamo confrontati con la storia biografica di Lidia Poët (interpretata da Matilda De Angelis): fu la prima avvocatessa italiana, o avvocata come si definisce per mano dello sceneggiatore. In rete, basta una breve ricerca per trovare ad esempio l’intervista che la Poët rilasciò dopo la sentenza della Corte di appello di Torino del 14 novembre 1883 (140 anni, son trascorsi da allora), la quale aveva stabilito che «l’avvocheria fosse un ufficio esercitabile soltanto da maschi, e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine», per rendersi conto della fedeltà con cui il film riporta le ambientazioni e in buona sostanza anche i fatti principali.

Entrambe le narrazioni possono essere godute anche solo per il plot investigativo, per la tensione narrativa, per le trame parallele e i rimandi letterari. Ma quel che è certo è che sarebbe impossibile guardare questi film senza rendersi conto, quasi si venisse investiti da un’aggressione, del politicamente scorretto che vigeva poco più di un secolo fa. Il messaggio è chiaro e forte, diremmo violento. Non c’è modo di non subire la distorsione della realtà di quel tempo rispetto al nostro, e non per le disuguaglianze dei costumi, per i modi, per le cortesie, per il fango, per le differenze di classe che persistono ancora oggi, in un qualche modo, ma proprio per la mancanza di «concessioni» dei privilegi degli uomini, sempre negati alle donne. E qui va levato il cappello. Il fatto di riuscire a farlo con film di consumo, e persino a tratti con ironia – da immortalare lo scambio di sguardo tra Jacopo e Lidia e la risata di entrambi che segue subito dopo la battuta di lui: «Di questo passo un giorno potrete anche votare» – si diceva, il fatto di riuscire a sensibilizzare lo spettatore sul tema della disuguaglianza di genere con film che hanno il potenziale di conquistare le masse è qualcosa che fa onore a chi li ha progettati. E fin qui tutto bene.

Entrambe le storie hanno dunque gli stessi pregi, ma qualcosa abbiamo da contestare a La legge secondo Lidia Poët – sebbene a noi sia comunque molto piaciuta la prima stagione composta da sei episodi, tanto che aspettiamo con impazienza la seconda.

Veniamo alle pecche. Son presto dette: laddove nel Regno Unito non hanno sentito la necessità di spargere un po’ di sesso e sangue, nella pellicola di ambientazione italiana hanno optato per farne ampio uso. Da una parte, l’indugio sui cadaveri (quasi a voler mostrare la bravura – e in questo senso l’operazione è riuscita – del truccatore cinematografico) ci appare non aggiungere niente né alle storie né all’avvocata-investigatrice (se non per pochi elementi, e non in tutti gli episodi), ma soprattutto, dall’altra, ci ha parecchio disgustato l’uso del nudo, ci vien da dire, tipicamente all’italiana (e vorremmo tanto sbagliarci).

La domanda è semplicissima: perché in un film del genere, di stampo femminista, si rende necessaria la profusione di tette e natiche? Non lo domandiamo per senso del pudore, non fraintendeteci: non ci infastidisce il nudo in sé ma la strumentalizzazione dello stesso, il continuare a renderlo oggetto di attenzione morbosa (eccessiva in quanto non funzionale alla storia narrata). Annoia questo voler trasformare, ancora e di nuovo, le parti intime della donna in un mezzo per attirare gli sguardi: non serve qui, non è Lolita e non siamo più negli anni Sessanta-Settanta.

Nudo di donna, s’intende. Mica di uomo. E no, non mi si dica che in verità c’è il nudo integrale di Jacopo (interpretato da Eduardo Scarpetta): primo perché in verità è l’unico nudo offuscato; secondo perché sarebbe in effetti stato l’unico narrativamente adeguato (anche se per noi Matilda De Angelis non avrebbe dovuto coprirsi gli occhi, per restare nel personaggio); terzo perché lui stesso ha ammesso in un’intervista (non siamo abituati ai nudi maschili, abbiate pazienza, pare abbia inorridito certa critica) che oltre a non aver avuto problemi nel girare quella scena, sarebbe stato addirittura lui a proporla, quindi non era prevista.

La domanda resta: perché mandare alla malora il buon proposito che vorrebbe le donne affrancate da certo sguardo maschilista, con scene narrativamente inutili?