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Bibliografia

Simone Müller, Bevor Erinnerung Geschichte wird, Limmat Verlag, Zürich, 2022.

 

Dopo il Giorno della Memoria

A margine del Giorno della Memoria (27 gennaio) l’Associazione ticinese degli insegnanti di storia, il Liceo cantonale di Lugano 1 e il Liceo cantonale di Bellinzona hanno organizzato una serie di eventi, ne segnaliamo alcuni:

Martedì 31 gennaio 17.30 Cinema Lux di Massagno, Tavola rotonda sul tema Passato e presente. Quale uso politico della storia nell’Europa attuale?

Ne discutono Luca Baldissara (Università di Bologna), Marcello Flores (Università di Siena), Carlo Gentile (Università di Colonia) e Antonella Salomoni (Università della Calabria).

Martedì 31 gennaio 20.30 Cinema Lux di Massagno, proiezione del film documentario Babi Yar. Context di Sergei Loznitsa (2021).

Per maggiori informazioni www.atistoria.ch


«Lo racconterò una volta soltanto»

Simone Müller ritrae storie e vite di ebrei sopravvissuti all’Olocausto oggi di casa in Svizzera
/ 30/01/2023
Natascha Fioretti

Martha Tausz-Seckl, classe 1920, ebrea austriaca sopravvissuta all’Olocausto, prese l’ultimo treno da Vienna prima della Notte dei cristalli del 9 novembre 1938. Né lei, né i suoi genitori quella notte potevano immaginare che non si sarebbero mai più rivisti. Una storia che a Simone Müller, che ha incontrato Martha qualche anno fa a nord di Londra, è rimasta ben impressa e l’ha ispirata a tal punto da farne un libro che raccoglie quindici intensi e delicati ritratti di ebrei sopravvissuti al nazismo e alla Seconda guerra mondiale che oggi vivono in Svizzera. Sono l’ultima generazione rimasta, quelli che allora erano dei bambini o dei ragazzini, coloro che si pensava avrebbero dimenticato ma non è così.

«Bergen-Belsen è la mia casa», racconta Katharina Hardy, nata a Budapest nel 1928 dove a sei anni inizia a suonare il violino, a undici viene espulsa dalla rinomata Accademia Franz-Liszt e in seguito deportata prima nel campo di concentramento di Ravensbrück e poi di Bergen-Belsen. Quando i soldati inglesi arrivano a liberarla ha sedici anni e pesa 29 chili. Nell’agosto del 1945 torna a Budapest e ritrova il suo violino. Vuole riprendersi quanto le è stato rubato. Torna al ginnasio e, instancabile, suona il suo violino, «volevo assolutamente tornare all’Accademia Franz-Liszt». Ci riesce e sarà per lei il trampolino di una carriera musicale che la porta, tra gli altri, a suonare al Musikkollegium di Winterthur, nell’orchestra della Zürcher Tonhalle e dell’Opernhaus. Suona e lega con i famosi musicisti ungheresi Sandor Veress e Tibor Varga. «Se sono sopravvissuta ai campi di concentramento è anche grazie alla disciplina», una disciplina ferrea che l’ha sempre accompagnata nel suo approccio alla musica. A salvarla, oltre alla disciplina, è anche la forza di carattere, come lei stessa racconta: «Quando tornai a Budapest ero un’altra persona con un’anima incredibile. Avevo visto un mondo al contrario in cui la morte era la normalità e la vita l’eccezionalità. Da lì in avanti ho affrontato l’esistenza partendo da basi diverse. Non c’era un Dio, non c’era nulla. Solo il lavoro e il pensiero di andare avanti. Con tutta la durezza possibile. E quella durezza l’ho conservata».

La musica ha salvato anche Mark Varshavsky, nato a Charkiw nel 1933, oggi di casa a Basilea. Inizia a suonare il violoncello a sette anni, qualche mese dopo irrompe la guerra, la Wehrmacht tedesca invade l’Unione Sovietica il 22 giugno del 1941. Per fortuna in ottobre viene evacuata insieme ad altre centomila persone, tra cui la madre Rosalia Chainowskaja e il fratello, appena due settimane prima dell’arrivo dei tedeschi a Charkiw. Le donne e gli uomini ebrei rimasti indietro verranno sterminati nel dicembre seguente sul terreno di una fabbrica di trattori: trecento uomini al giorno fucilati, donne e bambini ammazzati nei camion a gas. Dopo la guerra, Mark Varshavsky intraprende la sua carriera musicale come violoncellista e si esibirà negli anni sui più grandi palcoscenici internazionali davanti a un pubblico che ignora la sua storia, non sa nulla del suo viaggio stipato sui vagoni bestiame verso il Kazakistan per scappare dai tedeschi a soli otto anni. Certo, quell’esperienza ha forgiato il suo modo di suonare, «la sofferenza si rispecchia nella musica» racconta.

Anche nelle parole di Katharina Hardy si sente quanto profondo e indelebile si è annidato l’orrore condizionandone la vita. Intanto quando dice «io appartengo ai morti di Bergen-Belsen. Appartengo al luogo che più di ogni altro mi ha plasmata» e poi ancora «mi impegno a condurre una vita normale, ad adattarmi. Ma per me questa esistenza normale è una cosa ridicola. Le persone non sanno cosa potrebbe essere, quante cose sono possibili». In questo lo scoppio e l’attualità della guerra in Ucraina ci serve sicuramente da monito.

Simone Müller, germanista ed etnologa di formazione, autrice e giornalista indipendente, autrice qualche anno fa di un interessante volume per l’editore Limmat in cui raccontava la storia delle donne svizzere che negli anni Cinquanta emigrarono in Inghilterra alla ricerca di lavoro, spiega quanto per Mark, Katharina e tutti gli altri sia stato difficile tornare a ricordare, quanto sia stato doloroso. In diversi le hanno detto: «Ascolti bene perché lo racconterò una volta sola». Il suo intento sin dall’inizio, ispirata dalla incisiva frase che le disse Martha Tausz-Seckl «I am not going to speak German» è stato quello di indagare, capire quanto le atrocità inflitte dall’Olocausto, dal nazismo e dalla guerra siano vive ancora oggi in chi le ha vissute ormai 80 anni fa. Come ci si convive? Quanto si ricorda? Simone ricorda come «dopo la guerra, negli anni Cinquanta, la politica e la società si dicevano sicure che i bambini avrebbero dimenticato». Non è così; l’atto di ricordare provoca grande dolore, apre ferite che non si sono mai chiuse, per questo chi decide di condividere il suo tragico vissuto dice «lo racconterò una volta soltanto». Tutto è ancora molto presente in chi l’ha sperimentato, anzi nella solitudine dell’età i ricordi sembrano riemergere con prepotenza e vividezza: «In diversi mi hanno detto di avere spesso incubi, di svegliarsi gridando nella notte». Ognuna di queste storie ci colpisce nel profondo e ci lascia attoniti.

L’autrice ricorda come all’inizio si sia impressionata nell’ascoltare i racconti sui bambini piccoli, sentire le storie di come venivano nascosti all’ultimo momento nei posti più improbabili o affidati ad altre persone per non farli rastrellare ai nazisti. «Ne è un esempio Kurt Salomon (ritratto nella foto di Annette Boutellier scattata il 10 febbraio 2020 a Ginevra), che con la sorellina era nascosto in Belgio. Alla fine della guerra entrambi non parlavano più il tedesco e avevano imparato a diffidare di chi gli rivolgeva la parola in quella lingua: erano nazisti ed erano pericolosi. Un giorno, finita la guerra, arrivarono da loro nel cortile di questa fattoria nelle Ardenne olandesi due persone che parlavano tedesco e dicevano di essere i loro genitori. Preso dal panico Kurt Salomon mise la sorella su un carro e fuggì con lei nel bosco. Non riconosceva più i genitori. Un’immagine forte che spiega bene un altro difficile aspetto con il quale i sopravvissuti hanno dovuto convivere». Classe 1935, nato ad Aquisgrana, oggi Kurt Salomon è di casa a Ginevra. Cosa significa essere un sopravvissuto all’Olocausto, ai campi di sterminio, alla seconda guerra mondiale? Per Nina Weilová, numero 71’978, nata nel 1932 a Klatovy in Cecenia, significa convivere con l’immagine della madre morta ad Auschwitz. Con Simone Müller si incontrano a Zurigo nel caffè davanti al Landesmuseum. Nina non è stata solo ad Auschwitz, è passata anche per Theresienstadt, Stutthof, Thorn e Koronowo. Deportata ad Auschwitz vede la madre ammalarsi e perdere la vita. Una mattina lascia il blocco dei bimbi per andarla a trovare e la trova inerte. Esce dalla baracca per chiedere aiuto, l’uomo delle SS le risponde «che crepi». Delle donne adagiano il corpo nella neve, dietro la baracca. Tutti i giorni, per due settimane, Nina va da lei e le toglie la neve dal viso. Finché un giorno il corpo non c’è più. «Per Auschwitz non ci sono parole», dice.

Paul Erdös, nato nel 1930 a Budapest, oggi di casa a Meggen, si incontra con Simone al ristorante della stazione di Lucerna. Nella sua seconda vita ha insegnato fisica teoretica in Florida e poi all’ETH di Losanna. Racconta di quel marzo del 1944 quando la Wehrmacht invade l’Ungheria. Qualche settimana dopo gli ebrei devono portare la stella di David; a maggio partono i primi treni per Auschwitz. Per sfuggire ai nazisti la famiglia di Paul Erdös decide che è meglio separarsi. Dopo vari nascondigli, la mattina di Natale del 1944, Paul Erdös si trova nell’ospedale per bambini della Croce Rossa. Le Croci Frecciate irrompono per compiere l’ennesima razzia. «Si deve pensare che gli ebrei da un lato dovevano mettersi in salvo dalle persecuzioni dei nazisti – racconta Simone Müller – dall’altro dai pericoli della guerra e la storia di Paul Erdös ne è l’immagine perfetta». Paul scappa, si dirige su per le scale, raggiunge il tetto ma anche qui non è al sicuro perché arrivano gli aerei americani a bombardare la città. È in trappola: sotto lo aspettano i nazisti, sopra le bombe. Trova la salvezza nel mezzo, nella tromba dell’ascensore.