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Narratore senza mappe
Della stessa razza di Joyce e Faulkner, con la scomparsa di Javier Marías la letteratura europea perde una delle sue voci più importanti
Paolo Di Stefano
Javier Marías amava ricordare che cominciava a scrivere i suoi romanzi senza sapere come si sarebbe sviluppata la storia e che forma avrebbe preso. Ci sono altri scrittori che prima di partire hanno bisogno di prevedere con precisione dove andranno e in che modo. Ma il lettore avvertito sente la differenza: sente che Marías era della stessa razza di Joyce e Faulkner, e lo sente perché la lettura è come un percorso trapuntato di indecisioni, di vuoti, di sospensioni, di attese. Tutto questo è estremamente funzionale a scrittori per i quali la realtà non è mai quella che sembra, non è mai data una volta per tutte: dunque come avrebbero mai potuto intraprendere una trama già nota a priori? Sono scrittori che, come diceva Marías, non hanno mappe, ma dispongono di bussole, via via che procedono scopriranno il percorso da seguire e in questa scoperta accompagneranno il lettore. Per di più in Marías c’è sempre la tentazione (realizzata) di riflettere, tra le righe, su quel che sta scrivendo mentre lo scrive. Per esempio, aprendo un capitolo del suo romanzo più bello, Domani nella battaglia pensa a me, si legge: «Che disgrazia sapere qual è il tuo nome senza conoscere il tuo volto domani…». Qui lo scrittore ci parla del tempo, della metamorfosi imprevedibile imposta dal trascorrere del tempo, che è in fondo uno dei motivi principali della sua narrativa. Il tempo del narrare, per lui, è il passato remoto, mai il presente, che a suo parere «produce cattiva letteratura».
Con la morte di Marías, avvenuta l’11 settembre scorso a soli settant’anni, la letteratura europea ha perso uno dei maggiori scrittori. Questo è certo. Nato nel 1951 a Madrid, narratore precocissimo, pubblicò il suo primo romanzo a 19 anni grazie alla stima dello scrittore Jaun Benet, ma sorprese il mondo nel 1992 con Un cuore così bianco, tradotto in quaranta lingue: non un libro facilissimo, che ha per titolo una frase del Macbeth, dichiarazione d’amore per Shakespeare ribadita in più occasioni. In quel libro si manifestava uno dei nodi tematici (e morali) di tanti dei sedici romanzi di Marías: i segreti e le colpe che sono nascosti dentro la vita quotidiana (in questo caso nei rapporti familiari tra un figlio e un padre dal passato misterioso), segreti che si possono coniugare con il tradimento, con l’evanescenza del ricordo («nulla persiste e si ricorda per sempre») e con la rivelazione casuale o perseguita. La spia, il pedinatore, l’agente segreto sono figure ricorrenti fino agli ultimi romanzi, Berta Isla e il suo seguito, Tomás Nevinson, ma quel che sta a cuore a Marías è l’idea che anche lo scrittore (e dunque il lettore) è un pedinatore di vite altrui.
Uno dei miracoli delle invenzioni narrative di Marias è la perfetta omologia tra contenuti e forme, sicché la complessità degli intrecci psicologici messi in scena coincide con l’ampia architettura digressiva e con la struttura sintattica a volte quasi labirintica. Persino nella costruzione della frase, Marías invitava il lettore a muoversi con una bussola, perché, diceva, la letteratura è come la vita umana: non puoi sapere quale sarà la strada che ti porterà al gran finale, se c’è finale. Anche questa è una domanda che continuamente ci pone Marías: che cos’è davvero la fine, la morte, un’assenza definitiva, una presenza costante o una scomparsa solo apparente? Ne Gli innamoramenti (2011) la vittima continua a persistere anche da morto (ammazzato) e il presunto assassino è condannato a non vivere ciò che vorrebbe: è anche questo un libro (meraviglioso) sulle occasioni perdute e sui vuoti, in cui una catena di rapporti amorosi rivela la propria inevitabile incompiutezza.
Atti mancati, risvolti imprevisti, scambi di persona, vite dentro altre vite, verità dentro altre verità, ipotesi dentro altre ipotesi, coincidenze assurde, come quella con cui si apre Domani nella battaglia (uscito nel 1994, terzo della cosiddetta «trilogia sentimentale»). Uno sceneggiatore è invitato a cena in casa di Marta, una donna sconosciuta e sposata (il marito è in viaggio): quando stanno per fare l’amore, lei ha un malore e lui se la ritrova morta tra le braccia. L’uomo decide di cancellare ogni traccia e di andarsene. Da questo tragico incontro casuale il narratore ci precipita in un vortice incredibile di personaggi, di vicende incrociate e di sorprese in cui il lettore viene risucchiato senza scampo. Resterebbe da dire molto su questo scrittore straordinario e stratificato.
Resterebbe da dire, per esempio, che lo spagnolo Marías ha amato molto il calcio e il Real Madrid: lo testimonia un libretto (Selvaggi e sentimentali) che raccoglie articoli apparsi su «El País». Il calcio è per lui il «recupero dell’infanzia», l’affioramento delle paure del bambino, dell’allegria, del rossore, della rabbia, ma è anche un modo di guardare al presente. Bisognerebbe non dimenticare che il primo libro di Marías è uscito nel 1971, quando ancora la Spagna era franchista, e che l’euforia dei successivi suoi romanzi (come della letteratura spagnola venuta dopo il caudillo) ha anche, inevitabilmente, un significato politico.