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Dove e quando

18. Mostra Internazionaledi Architettura, The Laboratoryof the Future, Venezia.

Dal 20 maggio al 26 novembre 2023. Lu-ve 10.00-13.00 / 14.00-17.00; sa 10.00-13.00.

www.labiennale.org


Una Biennale con poca architettura

L’emergenza ambientale porta l’attenzione sulle ragioni che determinano la costruzione degli edifici
/ 24/07/2023
Alberto Caruso

Anche in questa Biennale di Architettura abbiamo visto poca architettura, come in quella del 2021. È un’affermazione decisa, condivisa da quasi tutta la critica, che si divide invece sulla coerenza e validità culturale del progetto espositivo. C’è chi sostiene, infatti, che le tesi programmatiche della curatrice Lesley Lokko (scrittrice e docente inglese, originaria del Ghana) siano state rappresentate con efficacia anche se con pochi progetti di architettura, non ritenuti indispensabili ai fini della ricerca e riflessione su quei temi, e chi sostiene che senza una precisa relazione tra il pensiero e il progetto la Biennale di Architettura perda di senso.

Il tema The Laboratory of the Future vuole illustrare il concetto di «cambiamento» soprattutto guardando all’Africa e alla sua diaspora, sulla cultura interpretata nel mondo dalle persone originarie di quel continente, che più di ogni altro vive le criticità drammatiche dei cambiamenti climatici e della disparità di condizioni economiche e sociali. La storia dell’architettura, sostiene Lokko, è incompleta perchè riferita solo a quella dei Paesi ricchi. L’esposizione serve a illustrare le questioni che rendono il futuro di tutti incerto come finora non era mai avvenuto: la questione dell’acqua e della desertificazione, la crisi dei modelli abitativi e della solidarietà, lo spreco di risorse. Questi temi importanti, che agitano la ricerca scientifica e il pensiero in tutti i Paesi, sono posti nelle premesse in modo forte, ma non vengono rappresentati con la necessaria efficacia, nonostante i mezzi scenografici a disposizione dei partecipanti. Manca la provocazione, mancano gesti capaci di colpire l’immaginazione dei visitatori. E manca l’architettura.

Il Presidente della Biennale ha difeso la scarsa presenza di architettura sostenendo che conta di più indagare le ragioni per le quali si costruisce un edificio, piuttosto che ragionare sulla sua forma. Ma se non si collega il pensiero al suo esito formale, l’esito sarà sicuramente fallimentare. Proprio perché il mondo della costruzione è protagonista delle emissioni globali e del consumo di suolo, è all’interno della sua cultura che si deve esercitare la critica, ricercando ed esponendo progetti nuovi, che cambino i paradigmi consolidati.

In questo senso, tra i pochi progetti di architettura visibili nelle sezioni curate dalla Lokko ricordiamo quelli del cinese Zhang Ke (ZAO), degli spagnoli Floris & Prats e degli studi BDR bureau + carton123 architecten (italiani e belgi). Gli architetti internazionalmente più noti non sono stati invitati, con la sola eccezione di David Adjaye, originario del Ghana, e di Diébédo Francis Kéré, originario del Burkina Faso.

Anche la distribuzione delle installazioni alle Corderie dell’Arsenale è significativa dello scarso rilievo attribuito alle questioni spaziali. Situate trasversalmente rispetto all’antico colonnato, parte del quale è stato incomiciato da setti in cartongesso, le installazioni interrompono la lunga prospettiva, annullando la singolare qualità spaziale delle Corderie.

Come è successo in altre Biennali, la mostra si riscatta con i padiglioni nazionali, i cui temi sono spesso dotati di autonomia rispetto a quello della curatrice. Il padiglione svizzero, curato da Karin Sander e Philip Ursprung, è dedicato alla relazione tra il manufatto edilizio del padiglione (costruito da Bruno Giacometti nel 1952) e l’adiacente padiglione del Venezuela (costruito da Carlo Scarpa nel 1954). Abbattuto il muro e rimossa la cancellata che li divideva, si è prodotta una relazione spaziale di grande interesse tra due concetti architettonici tra loro contemporanei e di qualità eccellente. Nella sala grande del padiglione svizzero è stato steso un tappeto di dimensioni pari a quelle della sala, che riproduce le piante unite dei padiglioni di due Paesi. Un concetto espositivo elementare, risolto con mezzi espressivi semplici, capaci di suggerire riflessioni sulle relazioni tra i due Paesi così lontani e diversi.

Anche altri padiglioni sono dedicati alla cultura della costruzione del proprio spazio espositivo. Quello giapponese, per esempio, descrive la storia del progetto, rivelandone le qualità costruttive. I visitatori scoprono che nel progetto originario un grande foro quadrato nella copertura consentiva l’ingresso della pioggia che, attraverso il secondo foro presente nella soletta del primo piano, scendeva fino al livello del terreno, conferendo allo spazio un carattere particolare e un’atmosfera poetica.

L’ingresso al padiglione tedesco, in altre Biennali oggetto di interventi finalizzati a ridurne la monumentalità nazionalsocialista, è stato modificato sostituendo con una lunga rampa circolare la grande scala esterna situata in asse con il portale. All’interno, un magazzino di materiali recuperati dalla rimozione di precedenti esposizioni viene ordinato, durante il periodo della mostra, per organizzare ambienti destinati a diverse attività dedicate ai visitatori.

Il padiglione austriaco (progettato da Josef Hoffmann nel 1934) propone un progetto che avrebbe potuto rivoluzionare l’intero assetto dei Giardini. La costruzione di una passerella pedonale, destinata ad oltrepassare l’adiacente muro di confine dell’area, poteva consentire agli abitanti del Sestiere di Castello di utilizzare una parte degli spazi del padiglione per le attività del quartiere. La passerella è stata costruita solo per metà, fino al confine, perché le autorità competenti non hanno consentito di varcarlo.