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«L’esperienza più incredibile che potessi vivere»

Approdato a Vico Morcote, il maestro Marco Armiliato si racconta e ricorda di quella volta che diresse i Tre Tenori
/ 03/10/2022
Enrico Parola

Se il LAC ha riportato la lirica sulle sponde del Ceresio, le bellezze lacustri hanno attirato uno dei direttori d’opera più acclamati e richiesti al mondo: Marco Armiliato ha da poco preso casa a Vico Morcote, il suo porto quieto nel frenetico viaggiare tra Europa, Asia e America per dirigere nei teatri più importanti del pianeta. Un caldo e tranquillo pomeriggio di fine estate è l’occasione per ripercorrere la sua parabola artistica.

Maestro, quando ha mosso i primi passi sulla via della musica?
Sinceramente non ricordo, avevo tre anni, quindi devo affidarmi a quanto mi ha raccontato mia madre, con l’attendibilità e la precisione storiografica che ci si può attendere da una mamma che stravede per suo figlio. Avevo tre anni e papà, grande amante della musica, aveva deciso che mio fratello maggiore dovesse imparare il pianoforte. Mentre andavamo verso il negozio ascoltavamo nell’autoradio la sonata Al chiaro di luna di Beethoven; beh, pare che mentre mio fratello stesse scegliendo tra i vari modelli io mi mettessi a un pianoforte, cercassi sui tasti i suoni corrispondenti e poi riuscissi a suonare l’inizio del Chiaro di luna; che non è difficile, ma per un bambino di tre anni che non conosce le note né la tastiera non è male. L’esercente consigliò di farmi studiare, i miei non ebbero esitazioni e io meno di loro. E qui arrivano i miei ricordi: modestia a parte, me la cavavo piuttosto bene, amavo il grande repertorio da Mozart ai romantici fino a Rachmaninov, il Novecento più ardito sinceramente non mi piaceva.

Se era così promettente come pianista, perché passò al podio?
Perché mi accorsi subito che più che star da solo su un palco davanti alla gente, adoravo fare musica assieme ad altri; in conservatorio ero l’accompagnatore di tutti: fagotto o violino, flauto o tromba, e poi trii, quartetti, ogni genere di ensemble. Mi divertivo come un matto.

Il direttore sogna di essere Karajan o Abbado, affrontare le grandi sinfonie di Beethoven o Mahler; perché puntare invece sull’opera, dove sembra che a comandare siano i cantanti?
Perché adoravo l’opera, il genere preferito da mio padre e più ascoltato in famiglia. E le circostanze della vita mi hanno portato quasi senza che lo cercassi verso la lirica – solo per cinque stagioni sono stato a capo di un’orchestra sinfonica, in Giappone, ed è stata un’esperienza bellissima, forse perché unica nella mia carriera. Quanto al rapporto con i cantanti, una delle qualità di un bravo direttore è quella di saper convincere gli altri che la propria idea è bella anche per loro.

E se non accade?
È un disastro. Mi ricordo di un Rigoletto a Monaco con un regista ungherese; siccome il tenore che impersona il Duca di Mantova non aveva una voce molto potente, pretese che La donna è mobile fosse cantata non solo da lui ma da tutto il coro. In scena potete fare quello che volete, ma non toccatemi neanche una nota di Verdi, questo è un sacrilegio: andai dal sovrintendente, che mi tacciò di scarsa collaborazione; non potevo accettare e ancor oggi mia moglie non vuole andare a Monaco per paura di incrociare quell’allestimento.

Tra i successi, ovviamente il più fragoroso e clamoroso fu l’esperienza con i mitici Tre Tenori: José Carreras, Luciano Pavarotti e Placido Domingo.
Sì, senza dubbio l’esperienza più incredibile che potessi vivere musicalmente. Tutto era iniziato con la volontà di Domingo di festeggiare la guarigione dalla leucemia di Carreras; avrebbe dovuto essere un concerto a due, con Zubin Mehta e il Maggio Musicale Fiorentino. Però in Italia non si poteva escludere Pavarotti, per me il più grande di tutti, così i Due divennero i Tre Tenori; concerto-evento a Caracalla, per i Mondiali di calcio del 1990. Domingo e Carreras volevano fare una tournée, Pavarotti nicchiò e non se ne fece nulla. Una seconda volta fu per i Mondiali in America, 1994, stavolta sul podio c’era James Levine, che avrebbe diretto anche il terzo concerto, quello a Parigi per i Mondiali del 1998; qui sì con annessa tournée mondiale successiva.

E lei?
Io mi sono ritrovato nel progetto attraverso più vie. Da una parte conoscevo i tre tenori e avevo diretto dei loro recital, ma singoli. Nel frattempo il Metropolitan di New York, guidato da Levine, mi aveva scritturato per dei titoli da dirigere nelle stagioni successive; Levine è di Cincinnati e quando debuttai là con Turandot c’era sua mamma, che il giorno dopo lo chiamò per dirgli che l’avevo stregata e lui doveva assolutamente conoscermi. James obbedì e come prima cosa mi chiese di aiutarlo a preparare il concerto dei Tre Tenori, visto che li avevo già accompagnati nei loro recital, anche all’aperto. Dopo Parigi 1998 facemmo tappa a Melbourne, Levine non poté venire e all’ultimo mi toccò sostituirlo; piacqui molto e mi chiesero di dirigere il resto della tournée, anche perché costavo molto meno di Levine. Per me era un’occasione, ma come dirlo a Jimmy? Lo chiamai, dubbioso e tormentato, ma per fortuna lui era d’accordo e mi augurò ogni fortuna.

Che esperienza fu?
Clamorosa, sotto ogni punto di vista. Luciano è il miglior tenore della storia, per me anche un amico, un uomo generoso che amava ogni espressione della bellezza, dal cibo – e guai se quando ti invitata non mangiavi tutto quello che ti metteva nel piatto! – all’arte, che amava circondarsi da belle persone; quando seppe che avrei diretto io i tre tenori mi abbracciò felice. Lui con José e Placido erano davvero dei miti viventi, il livello artistico era pazzesco, ma davvero unica era la dimensione ciclopica degli eventi, da pop star. Io da piccolo me la cavavo piuttosto bene a calcio, mi dicevano che avevo talento; forse non avrei mai potuto ritrovarmi a fianco di Messi, ma con i Tre Tenori ci esibimmo al Camp Nou, lo stadio del Barcellona; e poi Las Vegas, Montreal, l’unica volta al chiuso fu al Teatro Real di Madrid alla presenza del re.

Le più grandi voci con cui ha lavorato?
Tra gli uomini senza dubbio Pavarotti, tra le donne non ne saprei indicare una tra Marilyn Horne, Elena Obradzova e Olga Borodina… Stando sull’oggi, indicherei senza dubbio Anna Netrebko: fuoriclasse assoluta, una diva assoluta che giù dal palco non «se la tira» affatto ed è gentile con me come con l’ultimo dei costumisti.

Tanti teatri, a differenza dell’Arena, hanno annullato le opere con la Netrebko perché russa; e la soprana americana Angel Blue ha al contrario annullato la sua partecipazione a Verona perché Anna ha cantato Aida «colorata di nero», scelta che la Blue ha bollato come razzista.
Due cose diverse e ugualmente assurde, e non serve aggiungere altro.

Lei, genovese, era abituato a vedere il mare da casa sua; ora, dalla sua nuova dimora a Vico Morcote, guarda il lago: come si trova in Ticino?
Splendidamente. Stiamo parlando da un’ora all’aperto e non si è sentito ancora un rumore oltre alle nostre voci: una pace che ogni volta mi ricarica dai ritmi dell’«opera business»; e il Ceresio è stupendo: ogni giorno tra acqua e monti circostanti offre colori diversi.