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Angela Merkel, una storia esemplare
Netflix ◆ Un episodio da manuale, nel senso più letterale del termine, della più tipica produzione TV
Stefano Vassere
Se conviene tornare su Merkel, cordata Netflix danese, tedesca e britannica della fine dello scorso anno, è perché l’uso molto efficace di praticamente tutti gli stilemi della serie TV ce ne consegna un rappresentante del genere quasi da protocollo. Il documentario ha l’ambizione di farci stare l’intera vita della Bundeskanzlerin, dall’infanzia fino al teatrale congedo sulla piazza del Ministero della difesa del 2021, in poco più di un’ora e frequentando praticamente tutti i crocevia fondanti della sua vicenda politica.
A cominciare dall’apertura, dove sono alternate sequenze di un suo discorso all’Università di Harvard e di un comizio di Donald Trump, che la attacca senza educazione attribuendole la rovina del suo Paese («sta distruggendo la Germania»); tra musica grave che non promette nessun buon futuro, ai ragionamenti pieni di prudenti subordinate sul benefico abbattimento del muro tedesco sono affiancati semplici ed esclamativi decreti sul progetto di elevazione del muro messicano. E a finire, poi, con le immagini della mamma di Angela, che da Templin Brandeburgo racconta di quando, ai tempi della scuola, «doveva avere tredici anni», le fu improvvisamente insegnato a reagire alle fastidiose persecuzioni di alcuni piccoli bulli: «A quel punto capimmo che se la sarebbe cavata, che avrebbe trovato la sua strada».
In mezzo c’è tutto lo strumentario stilistico della serie TV. Lo scorrere avanti e indietro di una specie di orologio annuale a scandire un montaggio temporale qua e là disorientante (è il mescolare la fabula e l’intreccio la vera essenza del cinema, ce lo dicono ancora i manuali di comunicazione). Le testimonianze di protagonisti, amici e osservatori, qui politici, giornalisti, registi. Lo sgranare estenuante di argomenti: la tripla partenza ad handicap (donna, dell’Est, scienziata), il barocco maschile del mondo politico tedesco, l’angoscia della persona di fronte a confini e muri, la conseguente tentazione dell’accoglienza pubblica anche fuori misura, la gestione tenuta consapevolmente bassa delle aspettative del popolo, la tendenza a commuoversi, la prospettiva linguistica («il tedesco di Putin è meglio del mio russo»), l’assenza di ego, la strada felice dell’umiltà, la parsimonia, la capacità di pensiero, la comunicazione non verbale anche negli incontri ad alto livello, il disagio al trucco prima dei dibattiti, la paura dei cani, le facce, i gesti, le posture, il modo di tenere le mani.
Questo episodio è anche pieno di saluti: quello sonoro e polemico di Trump nel giorno della sconfitta; la visita di congedo di Obama che saluta dall’auto agitando la mano; la Cancelliera medesima, che tempo dopo, agita la mano anche lei da dietro i finestrini, reduce da cerimonia a tinte notturne e da un discorso di quelli da raccontare ai nostri nipotini dedicato a Gratitudine e Umiltà, mentre la banda militare con caschi e tutto intona marziale le canzoni di Nina Hagen e Hildegard Knef.
Una delle vere arti della serie TV consiste appunto nel costringere tutto questo esondante materiale e renderlo digeribile e si spera nutritivo in poco tempo per un pubblico che di tempo non ne vuole avere. Qui, dopo l’incedere necessariamente pirotecnico e chiusi i titoli finali, viviamo la certezza flou (per taluni magari illusoria, ma certezza resta) di avere capito tutto o quasi di Angela Merkel e dei suoi anni di potere, maturandone soprattutto l’impressione di una personalità senza eguali della recente politica globale. E di poterle infine, in un qualche modo, «dare del tu».