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Abbattere i monumenti! O no?
La storica dell’arte Lisa Parola fa il punto su una questione aperta, tra arte e democrazia
Emanuela Burgazzoli
A fine aprile a Kiev veniva demolita la statua dell’amicizia tra Russia e Ucraina: alta otto metri, costruita nel 1982, raffigurava due operai in bronzo che sorreggevano la stella dell’Ordine dell’Amicizia tra i popoli. Un’amicizia di cui oggi non resta più nulla. È l’ultimo di una lunga serie di monumenti simbolo dell’Unione sovietica rimossi in Ucraina, nell’ambito della così detta decomunistizzazione che ha portato alla rimozione di oltre mille statue di Lenin e altri leader dell’era sovietica. Quanti monumenti sono stati abbattuti, danneggiati o rimossi nel corso della storia? Senza tornare indietro alla Rivoluzione francese, basta rievocare il 2003, quando le immagini della caduta della statua di Saddam Hussein sono rimbalzate su tutti gli schermi del mondo. Perché le statue cadono, ma non tutte allo stesso modo, ci ricorda la storica dell’arte Lisa Parola nel suo Giù i monumenti (Einaudi, 2022), utile testo per fare il punto su una questione aperta, e più che mai attuale.
Le statue vivono un equilibro fragile, condizionato dai repentini cambi di direzione della storia e della società perché non sono soltanto opere d’arte, ma dispositivi comunicativi, in grado di comprimere la storia; si pensi ai recenti movimenti nati negli Stati Uniti nelle comunità afroamericane e ispaniche, fino all’ondata di protesta del Black lives matter, ma anche all’importante dibattito post-coloniale che ha sollevato la questione del ruolo – sempre meno neutrale – assunto dai musei. Gli attacchi alle statue di Colombo o a quelle del generale secessionista Lee negli Stati Uniti sono un significativo esempio della volontà di rimettere in discussione «la rappresentazione, l’autorità riconosciuta a un “io” eroico immerso in uno spazio pubblico solo apparentemente neutrale o indifferente»; in determinati momenti i monumenti da luoghi di commemorazione diventano luoghi di conflitto, facendo riemergere rimozioni profonde.
Significativo il caso della statua equestre di Roosevelt che fino a pochi mesi fa si erigeva davanti all’ingresso dell’American Museum of Natural History di New York (nella foto): l’ex presidente americano a cavallo con al suo fianco – ma a piedi – un nativo americano e un africano è stato rimosso su decisione dello stesso museo, dopo aver preso atto che il processo di ricontestualizzazione e il programma educativo avviati non sono stati sufficienti a «rovesciare l’evidente pregiudizio razziale e di genere di cui è portatore il monumento». La statua di Roosevelt ci ricorda che le statue hanno anche un genere: quello dei corpi maschili, dell’eroe-guerriero che si sacrifica per il bene della nazione, avvolti da un’aura di potere che insieme alla verticalità della loro altezza, li rende irraggiungibili. Ecco perché l’aura del monumento ha impiegato molto più tempo a dissolversi.
Gli artisti contemporanei hanno sovvertito l’idea di monumentalità; in Germania rispetto alla memoria dell’Olocausto si è cominciato a parlare di «contromonumento», per poter interrogare e farsi carico della storia, o per recuperare tracce di memoria perduta, come nel caso delle Stolpersteine (Pietre d’inciampo) ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig; piccoli blocchi di pietra che riportano inciso nome, anno di nascita (e morte), luogo e data di deportazione di vittime della Shoah. Ma «queste infinite possibilità aperte dalla storia raso terra», scrive Lisa Parola, vanno cercate nel passato; Rodin si era già reso conto che era tutta una questione di centimetri, quando propone alla città di Calais il suo progetto Les Bourgeois, ideando sei figure in piedi a grandezza naturale posate direttamente sulla pavimentazione. Troppo rivoluzionario quel monumento al «noi», corretto dalla città con un piedistallo «tanto deforme, quanto inutile», scrive Rodin. Tema centrale il basamento nel saggio; ne è la prova il Fourth Plinth Project a Trafalgar Square che nel 1998 è diventato uno dei primi progetti d’arte pubblica in Europa, con la decisione di utilizzare il plinto come piattaforma temporanea per opere d’arte, ma anche per persone comuni che a turno hanno «occupato» il piedistallo per cento giorni nel 2009.
E dunque che cosa fare oggi di quei monumenti che la Storia ci ha tramandato? Non esiste una risposta univoca; dipende da dove siamo e da dove li guardiamo e da che cosa raccontano nel presente, conclude Lisa Parola. Accontentarsi della strategia «retain and explain», conservare e spiegare, non è sufficiente e nemmeno lo è sostituire statue con altre statue. Occorre interrogare con un nuovo sguardo quei simboli e metterli al centro di una riflessione collettiva per conferire anche agli spettatori un ruolo attivo nel processo di risignificazione.