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Il ritorno di Park Chan-wook

In questi giorni è arrivato nelle sale ticinesi <i>Decision to Leave</i>, il film del regista coreano, vincitore lo scorso anno al Festival di Cannes
/ 13/03/2023
Nicola Mazzi

Decision to Leave è una duplice conferma. Da un lato vede la consacrazione di un regista (Park Chan-wook) (Mr. Vendetta, Old Boy e Lady Vendetta); d’altro lato è la riprova che il cinema coreano è tra i migliori al mondo in questo preciso periodo storico; vuoi per eleganza stilistica vuoi per efficacia e originalità delle sceneggiature. Infatti, dopo Parasite di Bong Joon-ho, che aveva fatto incetta di Palme e Oscar, la nuova opera di Park Chan-wook ha vinto meritatamente, al Festival di Cannes dello scorso anno, il premio per la miglior regia.

Il film è anche la dimostrazione che l’autore sa maneggiare con maestria diversi generi cinematografici. Se i suoi precedenti lavori erano estremi con una dose importante di violenza, quest’opera è tutt’altro. Si allontana dalle provocazioni per privilegiare la dimensione drammatica della storia, in cui a delicati turbamenti sentimentali si associano profonde vibrazioni interiori. L’eleganza del racconto e la dimensione simbolica sono tratti fondamentali di un film che chiede allo spettatore una piccola dose di attenzione (comunque agevolata dal regista che lo accompagna con mano sicura nei meandri della storia) per non perdere per strada dettagli importanti alla comprensione.

Decision to Leave è un poliziesco e allo stesso tempo una storia d’amore impossibile. Hae-joon, il protagonista, è un bravo detective, con una vita privata che tuttavia non lo soddisfa e quando si trova alle prese con un presunto caso di suicidio, sospetta che si tratti in realtà di omicidio e inizia a indagare sull’affascinante moglie cinese della vittima, Seo-rae: donna per la quale perde completamente la testa.

La pellicola basa buona parte del suo fascino sulla seduzione. Se è evidente e diegetica quella tra il poliziotto e la sospettata, è altrettanto intrigante, ma più sottile e sottotraccia anche quella del regista con lo spettatore. Dove i continui rimandi interni sono disseminati come indizi per la risoluzione del caso. L’insistenza sulle mani (i graffi sulla pelle, il segno della fede, la crema che il poliziotto mette sulle mani della sospettata, il guanto di metallo, le manette) e sugli occhi (i cadaveri che li hanno aperti, l’uso del cannocchiale per spiare la sospettata, le gocce che regolarmente il detective si mette) non sono casuali e sono il simbolo di un forte legame basato sul tatto e la vista tra i due.

E che dire della comunicazione? Altro aspetto fondamentale del film. Anzitutto è evidente nella relazione tra i due: lei è cinese mentre lui è coreano; due mondi diversi che si incontrano, si attraggono e cercano di capirsi. Lo fanno in diversi modi (per esempio attraverso la cucina e la musica), ma soprattutto usando il traduttore sul telefonino: oggetto, quest’ultimo, anche decisivo nella risoluzione del caso.

Insomma, tutto ha un significato, ha un senso nel film. Ogni elemento trova – come in un puzzle – il suo posto. Ma aver trovato il proprio posto non significa necessariamente comprendere. Ed è infatti quest’ultimo aspetto la chiave per entrare e poi uscire da una pellicola che ti resterà comunque sulla pelle e negli occhi anche dopo diversi mesi.