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Una lapide del cimitero di Viggiù (© CdT/Chiara Zocchetti)


Uno scrigno di storie, preservato dall’oblio

L’ottocentesco cimitero di Viggiù è al centro di un processo di musealizzazione che lo porterà a diventare tappa di un affascinante percorso artistico-storico sulle tracce di scultori e picasass
/ 05/05/2025
Simona Sala

A «Pietro Monti, morto il 31 Marzo 1874, di anni 59 i 12 figli» sulla lapide del cimitero di Viggiù scrissero: «Fu uomo di carattere antico, di esemplare amore, sostenne varie cariche popolari, iniziò la biblioteca circolante. La sua mesta sepoltura si tramuta sorridente nell’ara della famiglia, dinanzi ad essa, unico luogo di eguaglianza sintesi l’eloquenza di una vita sacra al bene».

A più di un secolo di distanza dalla loro fine, alcune storie sembrano risplendere di vita propria, prerogativa forse indispensabile all’immortalità di chi le rappresenta. È un po’ l’impressione che si ha una volta varcato il cancello del Cimitero Vecchio di Viggiù, scorrendo sulle lapidi i pochi nomi ancora leggibili di quei personaggi che si distinsero per motivi diversi, e non finirono sotto un anonimo cippo numerato, come la maggior parte della popolazione.

Uno era grande contrabbandiere: a raccontarlo, il monumento con immortalati i due cani da contrabbando (si dice che ogni giorno da Clivio ne scendessero un centinaio a Stabio, ritornando in collina avvolti dalla bastina contenente caffè e tabacco); un altro, Santino Pellegatta, giornalista dalla lingua biforcuta, non stilò solo la prima guida turistica su Viggiù nel 1894, ma si attirò anche gli odi di molti contemporanei con il suo giornale Biagio da Viggiuto, che si ispirava al personaggio letterario di Tommaso Grossi; un altro ancora, di nome Gussoni, fu garibaldino convinto, e da Bergamo dove lavorava, nel 1860 raggiunse dapprima la Liguria, e poi, da Quarto, la Sicilia – e quando Garibaldi si fermò a Talamone per caricare armi e scaricare gli uomini sposati, lui riuscì a restare nei Mille nonostante avesse già una moglie e una figlia.

Vi era anche chi poteva permettersi un tondo di Vincenzo Vela e chi spiccava per disposizione all’umiltà: il monumento dello scultore Luigi Buzzi Leone, infatti, non riflette il prestigio che l’artista acquisì grazie al proprio talento.

I cognomi riportati dalle tombe annerite dagli anni, dalle ombre e dalle muffe, decorate quasi con garbo, come per un vezzo volontario da muschi ed edere, sono gli stessi che si trovano in gran parte del Ticino, a testimonianza di un confine, quello tra Svizzera e Italia, che è stato – il 3 febbraio del 1550 – frutto di un mero atto politico che non teneva conto degli interessi e della cultura comuni delle genti che vi abitavano (tant’è vero che nei primi anni della «separazione», a chi abitava in prossimità del confine, era permesso spostarsi «dall’altra parte» per le processioni religiose e lavorare nelle cave che si trovavano tra le due nazioni).

Altrimenti, non si sarebbe spezzato a metà quel fazzoletto di venti chilometri quadrati ricchi di cave che hanno contraddistinto Arzo, Viggiù, Brenno, Saltrio…, dando i natali a innumerevoli scalpellini, picasass e scultori, che a loro volta si distinsero in tutta Europa, dedicandosi alla realizzazione di palazzi monumentali che ce ne parlano ancora oggi. La regione diede vita a dinastie di scultori, come Angelo e Antonio Bottinelli, Luigi e Giuseppe Buzzi Leone, Giuseppe, Giosuè e Antonio Argenti – e da noi, a una manciata di chilometri, Vincenzo Vela e Giovanni Albisetti.

Il cimitero di Viggiù, costruito nel 1820 nel comune a pochi chilometri dai valichi di Arzo, Stabio, Gaggiolo, San Pietro e Ligornetto – fra i primi a sorgere dopo l’editto di Saint-Clod di Napoleone nel 1804, che uniformava le norme per i cimiteri in materia di prescrizioni igieniche regolamentandone anche la gestione, non più affidata alla chiesa, bensì alle autorità pubbliche – novant’anni più tardi fu chiuso definitivamente, restando per oltre un secolo quasi dimenticato tra le mura di pietra che delimitano da una parte la strada, dall’altra un parcheggio, segnalato all’esterno solo dagli alberi dal fusto altissimo, in parte infragiliti dal tempo, e dalla statua di un angelo misericordioso.

Quando negli anni 60 si ventilò la possibilità di ricavarne un posteggio, vista e considerata la scarsità di soste per gli automobilisti nelle anguste vie del centro storico del paese di Viggiù, un ricorso di Italia Nostra ne prevenne la realizzazione, decretando così la salvezza di un luogo per la cui presenza oggi sembrano – a giusta ragione – essere tutti grati.

Il piccolo cimitero dal sapore vagamente gotico, dove la natura, pur avendo piede libero, sembra essersi mossa con una certa discrezione, viene aperto al pubblico una volta all’anno, il 2 novembre, in occasione della festa dei morti quando, come sottolinea la sindaca Emanuela Quintiglio, in una cerimonia rispettosa del luogo e di chi ancora lo abita, si organizza un breve reading, che può essere ispirato all’Antologia di Spoon River così come alla biografia inventata di un picasass sfortunato.

Ora, grazie a un ambizioso progetto di studio voluto dall’Università dell’Insubria e dal comune di Viggiù, unito al desiderio di restituire alla cittadinanza un luogo che in fondo le appartiene da sempre – ma che per oltre un secolo è rimasto inaccessibile –, il cimitero sarà sottoposto a un progetto che prevede in una prima fase, delle indagini bioantropologiche, in una seconda, l’apertura del sito al pubblico dopo un opportuno restauro conservativo.

A quel punto il cimitero diventerà tappa di un percorso che dalle cave di Viggiù porta alla splendida Villa Borromeo, con i Musei della scultura viggiutese dell’ottocento e dei Picasass, passando per il Museo Butti con il suo parco, e concludendosi nella quiete sospesa di un antico camposanto. Nella speranza che possa continuare a restare un luogo in cui ci si muove in punta di piedi, e dove ogni storia è ben custodita e protetta dallo scorrere del tempo.


RICOSTRUIRE LA STORIA DI UNA POPOLAZIONE ATTRAVERSO GLI ARCHIVI E LA BIOARCHEOLOGIA

Marta Licata, antropologa dell’Università dell’Insubria (Dipartimento biotecnologie e scienze della vita diretto dalla professoressa Flavia Martinelli), e a capo del progetto che coinvolgerà il cimitero di Viggiù, spiega come in un primo momento siano previste delle indagini antropologiche fisiche, con lo studio dei resti umani; ciò permetterà di conoscere la popolazione da un punto di vista diverso rispetto a quello delle sole fonti scritte, spostando il focus sullo stato di salute della popolazione o sulle conoscenze mediche del tempo.

Marta Licata, con quali modalità e dove avverrà questo processo di ricerca?
Al fine di coinvolgere la popolazione, i lavori si svolgeranno in un laboratorio di studio a Viggiù, messo a disposizione dal Comune. Quest’ultimo, attraverso figure istituzionali come la sindaca Emanuela Quintiglio, ma anche volontari come Daniele Trentini, Beppe Galli o Carlo Veronesi, appartenenti ad Associazioni attive sul territorio, sosterrà i lavori di ricerca non solo per tutta la loro durata, ma anche nella fase successiva, quando serviranno dei volontari per la gestione del cimitero.

L’ultima fase di musealizzazione vedrà la creazione di un’app che permetterà di fare la conoscenza dei diversi viggiutesi indagati sotto il profilo storico-archivistico.

Lavorerete dunque di concerto con gli abitanti di Viggiù?
Esattamente. In questo cimitero le tombe erano per lo più indicate da un cippo, solo chi poteva permetterselo posava una lapide, a terra o sul muro. I cippi riportano un numero e l’anno, ma il registro con i nomi corrispondenti non esiste più, e dunque dovranno ricostruirlo il geometra Daniele Trentini e lo storico Beppe Galli, cercando gli atti e i registri di morte, tra parrocchia e comune.

È la prima volta che l’Università dell’Insubria si muove nell’ambito della musealizzazione di questo genere di reperti?
Il progetto di Viggiù si inserisce in un processo di Valorizzazione dei siti bioarcheologici da parte dell’Università dell’Insubria e che ha visto protagoniste tre aree della Valcuvia: San Biagio in Cittiglio, Sant’Agostino in Caravate, e la cripta dei frati francescani del convento di Azzio.

A Cittiglio, in un contesto medievale, si può visitare la Chiesa contenente le tombe oggi musealizzate, che a loro volta contengono i reperti osteologici da noi analizzati. Attraverso il QR Code si può accedere ai contenuti riguardanti la persona interessata rilevati dall’antropologo.

Ci siamo occupati anche di uno scheletro ormai divenuto celebre, quello della tomba 13, che ha fatto il giro del mondo. Si tratta di un ragazzo che è stato ucciso e preserva tre tagli a livello del capo. Abbiamo analizzato la sua storia, i suoi ultimi momenti di vita, ne abbiamo ricostruito il volto e abbiamo addirittura provato a ricostruire l’episodio violento che ha portato alla sua morte.

Fra i nostri obiettivi, oltre allo studio e alla ricerca, vi sono anche le attività di terza missione, che consistono nel dare un contributo al territorio.

A cosa serve l’analisi dei resti umani da un punto di vista bioantropologico?
Essa fornisce elementi preziosi alla narrazione della storia degli antichi abitanti, che risulterà ancora più completa là dove vi sarà la possibilità di sovrapporla all’analisi archivistica. In questo modo si può recuperare parte della storia biologica delle popolazioni grazie alla ricostruzione di un profilo biologico individuale comprendente età, altezza, sesso, patologie presenti, dieta e cosiddetti marcatori occupazionali, riferiti alla probabile attività lavorativa del soggetto.

Questo progetto è particolarmente interessante perché abbiamo a disposizione un’intera popolazione; stimiamo che vi siano i resti di almeno duecento persone, ma non ne abbiamo certezza, anche perché nel cimitero non vi è un ossario, e non si sa bene cosa ci sia sotto. Sarà molto importante mantenere l’aspetto di decadenza del cimitero: se sparisse, avremmo rovinato tutto.