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Bibliografia

Cormac McCarthy, Il tagliapietre, Traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, Torino, 2025.
Le parole scolpite di Cormac McCarthy
Letteratura: pubblicato da Einaudi Il Tagliapietre, l’unico libro a firma dell’americano non ancora tradotto in italiano, fino a oggi
Pietro Montorfani
«Il gesto di mettere una pietra sull’altra è la professione più vecchia che ci sia. Nemmeno la prostituzione può aspirare a rubargli il primato. È la cosa più antica del mondo, persino della scoperta del fuoco. E negli ultimi cinquant’anni, a causa del cemento idraulico, sta praticamente scomparendo. Mi sembra un fatto piuttosto interessante». Così lo scrittore americano Cormac McCarthy rispondeva a Richard B. Woodward il 19 aprile del 1992 sulle colonne del «New York Times Magazine», in una delle rarissime interviste concesse in vita, a proposito della pièce The Stonemason (che da oggi possiamo cominciare a chiamare Il tagliapietre grazie alla traduzione italiana della ticinese Maurizia Balmelli).
Già noto per i suoi racconti crudi ed essenziali giocati tra violenza estrema e profondo senso del destino, ambientati per lo più nel sud degli Stati Uniti (Figlio di Dio, 1973; Suttree, 1979; Meridiano di sangue, 1985), nel 1991 McCarthy aveva ricevuto una borsa letteraria del John Fitzgerald Kennedy Center Fund for American Plays con il compito di stendere un testo teatrale per la stagione successiva. Qualcosa di simile, pur senza lasciare traccia scritta, aveva fatto alla fine degli anni Settanta con The Gardener’s Son, diretto da Richard Pearce per la PBS. Le premesse sembravano più che buone – eppure, alla fine, non se ne fece nulla: tolta una messa in scena parziale in forma di laboratorio, infatti, la sceneggiatura restò inutilizzata per decenni, segnando in qualche misura anche la sua scarsa fortuna editoriale. Nessuna sorpresa quindi se, nel mondo italofono, si sia arrivati soltanto ora a ripescare quel vecchio testo, ultimo tassello di un’opera che si delinea sempre più tra le creazioni letterarie più originali della nostra epoca.
Il tagliapietre narra le vicende di una famiglia di lavoratori del Kentucky sull’arco di quattro generazioni: non però nella diacronia, come avrebbe forse fatto uno scrittore europeo ossessionato dall’evoluzione storica, bensì nella compresenza. Nel senso che anche l’anziano Papaw, nel momento puntiforme del tempo in cui si immagina ambientata la storia (febbraio 1971), continua a lavorare tanto quanto i figli e i nipoti, nonostante i 101 anni suonati che si ritrova sulle spalle. «Era già vecchio prima che io nascessi» ammette il nipote Ben, il vero protagonista della pièce, «e gli ho voluto bene tutta la vita e gliene voglio ancora».
La questione del lavoro, il suo stare al centro della vita come metafora morale, è il tema cardine del libro ed è costantemente sulla bocca di tutti. Ne parla Ben quando si ispira alla figura del nonno, tagliapietre alla vecchia maniera, i cui gesti assumono il sapore di una sacralità antica. Ne parla il rappresentante della generazione intermedia, Big Ben, nel rivendicare la via più facile dell’imprenditore edile che abbraccia le nuove tecnologie pensando più al guadagno che al senso della fatica (salvo poi sfiorare il tracollo finanziario). E non ne parla, sintomaticamente, il giovanissimo Soldier, il cui dramma fatto di dipendenze da alcol e droghe attraversa tutta la storia fino all’ovvia catastrofe finale, che ha il merito di rimettere in dubbio tutto il portato di saggezza di cui la famiglia si è fatta portavoce senza riuscire, di fatto, a scalfire la libertà dei singoli.
Nel leggere questo «nuovo» McCarthy, maestro nella gestione dei dialoghi e nell’affrontare di petto i grandi temi della vita e della morte, non si può fare a meno di chiedersi ancora una volta quali siano i suoi riferimenti culturali, e se questi, con il variare del tempo, si siano modificati o meno. Da che parte sarebbe stato il misterioso autore di Santa Fe, scomparso nel giugno del 2023, nell’America di Donald Trump e J.D. Vance? Da nessuna parte, forse, o meglio soltanto dalla sua, quella di un uomo che viveva di assoluti, dentro un confronto continuo con i limiti della letteratura e della lingua.
La stessa dinamica, tesa alla verticalità del pensiero, si incontra anche nel Tagliapietre, che interseca tangenzialmente i principali sistemi culturali che hanno eletto il lavoro a immagine esclusiva della vita degli esseri umani – quella marxista e quella massonica, dimenticando forse soltanto l’«ora et labora» dei benedettini – senza però adagiarsi in essi, tenendoli semmai come semplici filigrane polemiche sullo sfondo. «Perché di operai saggi non ce n’è di più?» chiede a un certo punto la moglie Maven, e Ben le risponde: «Immagino per lo stesso motivo per cui non ci sono più professori universitari saggi. Pensare è cosa rara in tutti gli strati sociali. Ma un manovale che pensa, be’, sembra più verosimile che il suo pensiero sia temperato dall’umanità. È più propenso alla tolleranza. Sa che nella vita quello che importa è la vita. Maven: E il professore? Ben: Credo sia più incline a essere pericoloso e basta. Marx non ha mai lavorato un solo giorno in vita sua».
E la medesima severità, più o meno ironica o giustificata, i personaggi di McCarthy mostrano nei confronti di una delle tradizioni fondanti dell’epopea nazionale statunitense: «Stando alle vecchie cariche dell’Ordine massonico i figli di Israele sono diventati liberi muratori in Egitto. […] Il lavoro è tutto, e tutto quel che s’impara lo si impara facendo. Avevano ragione i massoni di sospettare che nei misteri del taglio della pietra fossero contenuti altri misteri. Speculativi, li chiamavano. Aristocratici che venivano fatti liberi muratori onorari. E se è vero che posare pietre può insegnarti il timore di Dio e la tolleranza verso il prossimo e l’amore per la tua famiglia è anche vero che questo sapere è instillato in te attraverso il lavoro e non attraverso una qualsivoglia contemplazione del lavoro».
Riletto con ancora nelle orecchie i ritmi larghi di Suttree (1979, ma in Italia da Einaudi soltanto nel 2009, sempre grazie a Maurizia Balmelli), così come i dialoghi scolpiti di Sunset Limited (2006) e di Stella Maris (2023), Il tagliapietre si mostra come un McCarthy d’annata, davvero un distillato del suo pensiero e della sua visione del mondo, aperta se non spalancata sulle questioni cruciali della fede e del perdono. Una sua messa in scena, ora che disponiamo di un’ottima traduzione italiana, sarebbe auspicabile e, credo, fattibile con poco sforzo: magari sorvolando su qualche didascalia di troppo (McCarthy rimane un narratore puro e qui e là abbonda nelle annotazioni registiche), sullo slang di Papaw e sul fatto che, copione alla mano, tutti i protagonisti dovrebbero essere di colore, una sfida per l’attuale panorama del teatro italofono. E perché non al LAC, per essere poi esportato nei migliori teatri d’oltreconfine? Dal Ticino all’Italia, sulle orme della sua stessa traduttrice.