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Là dove la terra vibra
Documentari: «Il canto del respiro» di Simona Canonica nasce dalla maternità e si apre al mondo
Nicola Mazzi
Premessa. Questo documentario va assolutamente visto in una sala cinematografica, meglio ancora se dotata delle tecnologie più avanzate. Sul piccolo schermo – anche se di ultima generazione – rischia infatti di perdere parte del suo fascino e della sua forza immersiva.
La locarnese Simona Canonica, classe 1981, ha realizzato un film al tempo stesso profondamente personale e sorprendentemente universale. Partendo da un’esperienza intima come la maternità, ha saputo dar voce alla natura e alla connessione che lega ogni essere umano a essa.
Presentato in anteprima al recente Visions du Réel di Nyon, Il canto del respiro sarà in concorso al Trento Film Festival dal 25 aprile al 4 maggio, e con ogni probabilità continuerà il suo percorso in altre rassegne cinematografiche, prima di approdare su Play Suisse.
Il canto del respiro è un documentario che esplora il legame tra il respiro degli esseri viventi e la Natura. Si tratta di un viaggio profondo e avvolgente che attraversa tre Paesi e altrettante culture, fondendole in un flusso narrativo continuo e naturale, privo di cesure. Lo spettatore si sposta da un paesaggio all’altro senza strappi, seguendo un ritmo che è quasi quello del respiro stesso.
In Australia, un discendente dei nativi attraversa il Paese per tramandare la memoria del suo popolo e la forza ipnotica del suono circolare del didgeridoo (uno strumento naturale aborigeno). In Mongolia, un giovane va alla ricerca della vibrazione primordiale della propria voce, guidato da un saggio anziano. In Italia, nel cuore del bosco di Paneveggio in Trentino, un abete rosso custodisce e rivela la propria musica interiore, attraverso il passaggio delle stagioni.
Guardando quest’opera – e il termine non è usato a caso – si percepisce chiaramente il desiderio profondo della regista di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza sensoriale totale, quasi ancestrale. È un po’ come tornare bambini, quando i sensi si risvegliano e aprono la porta al mondo. Il canto del respiro riesce a evocare questa sensazione originaria, per chi è disposto a guardare e ad ascoltare con attenzione autentica.
Le parole sono rare e misurate: qualche insegnamento degli anziani ai giovani su come usare la voce, qualche scambio tra adulti sull’origine dei suoni. Il linguaggio verbale resta sullo sfondo, come una cornice che spiega e suggerisce, ma non sovrasta. Il cuore dell’opera risiede nell’esperienza visiva e sonora.
La stessa Simona Canonica spiega così la sua intenzione: «Il film intende raccontare un percorso di presa di consapevolezza delle potenzialità del respiro. Il respiro, che da millenni si manifesta in vibrazioni, suoni e canto: tessuto dell’essere e filo invisibile che tutti ci unisce e ci lega. Un movimento continuo dell’inspirare ed espirare, dell’ascoltare e rispondere, del dare e ricevere». Un’idea nata durante la gravidanza: «Mentre il mio corpo cambiava, la mia sensibilità all’ascolto aumentava. Ascoltavo mia figlia crescere dentro di me, percepivo il mio respiro e il modo in cui l’ossigeno le arrivava. Cercavo di capire se fosse sveglia o dormisse, se sorridesse o piangesse. Ma, soprattutto, cantavo per lei. Il canto mi ha permesso di entrare in una connessione più profonda e consapevole con il mio corpo, con le persone e con il mondo intorno a me», racconta la regista.
Anche dal punto di vista formale, il film si distingue per originalità e rigore. L’attenzione è tutta rivolta alle immagini e ai suoni, e la macchina da presa compie spesso un passo indietro: resta immobile, discreta, per lasciare spazio alle immagini e ai suoni. Ma in alcuni momenti si fa più audace: si muove con lente carrellate – come nella scena in cui si ascolta la voce dell’abete rosso – oppure si alza in volo, offrendo visioni dall’alto in movimento. Soluzioni tecniche che, senza essere mai invadenti, rafforzano la chiarezza e l’intensità del messaggio: il canto del respiro.