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Il riso della Pasqua tra fede, tradizione, sovversione

Una manifestazione di gioia, ma anche un rituale di passaggio che permetteva ai fedeli di riconciliarsi con la vita
/ 14/04/2025
Leonardo Marchetti

Il risus paschalis, fenomeno liturgico documentato nel Medioevo, solleva questioni complesse riguardo al rapporto tra religione, comicità e cultura popolare. L’epistolario di Giovanni Ecolampadio, teologo e umanista tedesco, e Wolfgang Fabricius Capito (anch’egli umanista, teologo e riformatore tedesco), risalente ai primi decenni del XVI secolo, ne fornisce una delle prime testimonianze critiche, rivelando il dibattito tra chi lo riteneva un espediente retorico utile per rendere più efficace la predicazione e mantenere alta l’attenzione dei fedeli e chi, come Ecolampadio, lo considerava una pratica degradante, incompatibile con la sacralità della liturgia e potenzialmente pericoloso per la corretta trasmissione del messaggio cristiano.

Procediamo con ordine. Con risus paschalis s’intende un’usanza secondo cui in ambito germanofono i predicatori, durante la celebrazione pasquale, introducevano elementi comici, spesso salaci, per suscitare il riso dei fedeli.

L’idea, se ha ragione Michail Bachtin nel suo celebre studio L’opera di Rabelais e la cultura popolare, era probabilmente che la risata rappresentasse una rinascita gioiosa dopo le privazioni quaresimali, una sorta di ritorno alla vita simbolico, in cui il corpo e la mente venivano liberati dalle costrizioni del lungo periodo di penitenza e astinenza imposto dalla Chiesa.

Bachtin, filosofo e critico letterario russo (1895-1975), è noto per le sue ricerche sulla cultura carnevalesca nel Medioevo e nel Rinascimento, nelle quali ha messo in evidenza come il riso collettivo svolgesse una funzione liberatoria e rigenerativa, rovesciando temporaneamente le gerarchie sociali e permettendo una partecipazione più attiva della comunità. La risata, in questo contesto, assumeva una funzione catartica, liberatoria, quasi sacrale, perché metteva in scena il trionfo della vita sulla morte, della resurrezione sulla sofferenza. Bachtin collega questo tipo di riso alle festività popolari medievali, in cui l’elemento carnascialesco rovesciava l’ordine costituito, permettendo alla comunità di esprimere un senso di rinnovamento e rigenerazione. Il riso pasquale, dunque, poteva essere inteso non solo come una manifestazione di gioia, ma come un vero e proprio rituale di passaggio che, attraverso il sovvertimento momentaneo della seriosità liturgica, permetteva ai fedeli di riconciliarsi con la vita e di partecipare attivamente alla celebrazione della resurrezione.

L’ambito geoculturale del risus paschalis si colloca principalmente nell’Europa medievale e rinascimentale, con particolare diffusione nell’area germanica, nelle regioni alpine e in alcune zone dell’Italia settentrionale e centrale. Tuttavia, tracce di questa pratica si riscontrano anche in Francia e nei Paesi Bassi, dove le tradizioni carnevalesche e festive avevano forti legami con la cultura ecclesiastica locale. La pratica del riso liturgico, con le sue sfumature parodiche e burlesche, si inseriva a ogni modo in una più ampia tradizione europea di rituali legati alla sovversione temporanea dell’ordine sacro, come le Feste dei Folli, la Messa dell’Asino e altre celebrazioni in cui elementi comici e grotteschi venivano momentaneamente tollerati all’interno dello spazio sacro.

Pratiche in cui, come sottolinea Jean-Claude Schmitt in La ragione delle figure: Riso, festa e riti nel Medioevo (1992), si ricorreva al riso da una parte per sovvertire temporaneamente l’ordine ecclesiastico senza minacciarlo strutturalmente, mentre sotto un altro aspetto si controllavano e si canalizzavano le energie sociali all’interno di un quadro regolato dalla Chiesa (si veda su questo aspetto Jacques Le Goff in Tempo della Chiesa e tempo del mercante, 1977, in cui si esplora tra le altre cose il rapporto tra riti festivi, cicli liturgici e momenti di ribaltamento dell’ordine sacro).

In contesti come quelli sopracitati, il risus paschalis assumeva caratteristiche diverse a seconda delle specificità culturali e delle influenze locali: mentre in alcune aree era strettamente legato alla predicazione, in altre diveniva un vero e proprio spettacolo collettivo con la partecipazione attiva dei fedeli.

Per Ecolampadio, invece, uomo del suo tempo, questo comportamento degenerava in esibizioni oscene e grottesche da parte dei predicatori, lontane dallo spirito religioso, tra cui la simulazione di atti burleschi, sessuali, eccetera che a suo dire gettavano ombra sulla dignità della liturgia.

D’altro canto, Fabricius Capito, pur riconoscendo tali eccessi, ne difendeva la necessità pragmatica: senza il risus paschalis, si legge nelle sue risposte a Ecolampadio, la predicazione avrebbe rischiato di cadere nel vuoto, priva dell’attenzione popolare. Questo argomento trova riscontro nella tradizione medievale degli exempla, storie aneddotiche usate dai predicatori, specialmente francescani e domenicani, per rendere il messaggio cristiano più accessibile e coinvolgente. Nel riso, in sostanza doveva riconoscersi uno strumento pedagogico e pastorale.

Ecolampadio, invece, esprime perplessità sull’origine di questa tradizione. Chiedendo a diversi interlocutori, non riceve risposte convincenti. Alcuni difendono il risus paschalis come parte della gioia pasquale, altri lo collegano all’eutrapelia, virtù aristotelica che valorizza il giusto equilibrio tra serietà e scherzo. Tuttavia, la sua indagine rivela che tale usanza era ormai radicata a tal punto da non suscitare più interrogativi sulle sue origini.

L’analisi antropologica del fenomeno permette tuttavia di cogliere connessioni con pratiche rituali più ampie, ben oltre le ipotesi di Bachtin. George Minois, nel suo libro Storia del riso e della derisione (2000), osserva per esempio che nel cosiddetto «Medioevo» il riso aveva una funzione sociale e rituale, spesso impiegata per esorcizzare la paura della morte e ristabilire un ordine simbolico.

Alfonso Maria di Nola, antropologo e storico delle religioni, approfondisce dal canto suo il legame tra riso, oscenità e crisi nel suo studio Antropologia religiosa (1976), in cui analizza diversi miti e tradizioni religiose, evidenziando come in alcuni contesti mitico-rituali la risata scaturisca dall’ostensione dei genitali da parte di una divinità femminile, atto che interromperebbe un momento di crisi cosmica e si configurerebbe di conseguenza come un importante strumento di reintegrazione dell’ordine dopo un evento destabilizzante. Si vedano il mito della dea giapponese Uzume che, danzando e sollevandosi la veste, riesce a far uscire Amaterasu dalla caverna in cui si era rifugiata, ripristinando l’ordine cosmico. Oppure Baubo che, mostrando le proprie parti intime alla disperata Demetra in cerca della figlia, la fa ridere e le permette di riprendere la ricerca della figlia Persefone. 

La morte rappresenta uno di tali eventi, e le reazioni rituali ad essa spesso comprendono manifestazioni di riso e oscenità. Di Nola documenta come, in diverse culture, il lutto sia accompagnato da gesti e parole sconvenienti, capaci di ribaltare simbolicamente la tragedia della perdita. Esempio ne sono le veglie funebri in Italia e in Europa, in cui non mancano canti osceni, danze e scherzi, tutti elementi che appaiono anche in pratiche rituali medievali come la Messa dell’Asino e la Festa dei Folli, già menzionate, basate sulla sovversione temporanea dell’ordine gerarchico.

Questa dinamica di inversione si potrebbe applicare anche al risus paschalis: il riso osceno, così inteso, romperebbe la cupezza della Settimana Santa a celebrazione della vittoria della vita sulla morte. La resurrezione di Cristo, evento che sovverte l’ordine naturale spezzando il dominio della morte, trova nel riso una sua espressione simbolica. Il risus paschalis, con la sua carica di eccesso, parodia e oscenità, si inserirebbe in questa logica di ribaltamento e di rinnovamento.

Un ulteriore elemento di riflessione emerge dal confronto con il riso biblico. L’episodio di Abramo e Sara, che ridono alla promessa divina di una discendenza nonostante la loro vecchiaia, è significativo: qui il riso segna il paradosso della fede e della potenza creatrice di Dio. L’interpretazione cristiana ha distinto il riso di gioia (Abramo) dal riso di incredulità (Sara), riconoscendo comunque in esso un segno della relazione tra l’uomo e il divino.

In questa prospettiva, il risus paschalis potrebbe essere inteso non come una semplice degenerazione di costumi, ma come un’eredità di pratiche rituali arcaiche in cui il riso esprime una connessione profonda con il sacro. Maria Caterina Jacobelli, nel suo studio Il risus paschalis e la teatralità della liturgia (2012), suggerisce che il fenomeno possa essere interpretato come una metafora del piacere sessuale in quanto espressione della gioia divina.

L’autrice esplora poi il legame tra il risus paschalis e la tradizione del Cantico dei Cantici, mettendo in evidenza come il piacere, spesso rimosso dalla dimensione sacra, possa invece essere parte integrante dell’esperienza religiosa e della celebrazione pasquale. Jacobelli si sofferma inoltre sulla valenza simbolica della teatralità liturgica medievale, sottolineando come il riso fosse un elemento in grado di conciliare il divino con l’umano.

Tuttavia, vi sono altre letture possibili.

Alcuni studiosi, come il già citato Jean-Claude Schmitt (Rire et religion au Moyen Âge, 2002) e Arnold van Gennep (I riti di passaggio, 1909), vedono ad esempio il risus paschalis come una forma di sopravvivenza di rituali pagani di rinnovamento stagionale, in cui il riso aveva una funzione propiziatoria e rigenerativa. Altri, come Peter Burke (La cultura popolare nell’Europa moderna, 1978), lo considerano una strategia di controllo sociale: la Chiesa, tollerando temporaneamente il riso osceno, permetteva ai fedeli di sfogare le proprie tensioni in un contesto regolato, evitando che questi comportamenti emergessero in altri momenti dell’anno.

Questa pluralità di interpretazioni evidenzia come il risus paschalis, ormai scomparso, non sia stato un fenomeno univoco, ma un crocevia in cui si intrecciano elementi teologici, antropologici e sociali. La tensione tra l’accettazione e la condanna di questa pratica riflette un dilemma più ampio sulla gestione del sacro e sulle modalità di coinvolgimento dei fedeli. Se infatti il riso è un atto culturale, esso ha svolto storicamente un ruolo centrale nel modo in cui le società hanno affrontato la morte, la fede e la speranza nella rinascita. Dopotutto, come afferma Georges Bataille in L’erotismo (1957): «Il riso, il pianto e l’estasi sono momenti di comunicazione estrema, in cui l’uomo si sottrae alla propria solitudine per fondersi con il sacro e con la comunità».