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Prove di passione nel Venerdì dei penitenti
Tra santi, vulcani e cucuruchos, la sacra teatralità di Antigua avvolge nel rito e nel mistero la Semaña Santa
Enrico Martino, testo e foto
Nell’atmosfera ancora umida della notte le prime luci dell’alba scaldano Ponzio Pilato che discute con uno dei due ladroni mentre Caifa chiama casa con il cellulare. Tutto si ricompone in un istantaneo miracolo al sordo rullio dei tamburi quando dall’atrio «giallo torta di nozze» della chiesa de La Merced esce ondeggiando un immenso palanchino sormontato da un Nazareno in tunica rossa, caricato da secoli di masochistico penitenziarismo ispanico e avvolto da fiumi d’incenso sparsi da centinaia di turiboli che roteano pericolosamente nell’aria.
Lo sostengono a turno oltre ottanta cucuruchos, i penitenti infagottati nelle tuniche moradas, il viola di rigore, accompagnati da una marcia funebre e attorniati da centurioni e soldati romani dall’aria inequivocabilmente maya. Perché gli «autoctoni» possono fare i soldati romani, i cattivi per antonomasia, ma i penitenti no, per tradizione appartengono alle famiglie decentes come si dice qui, quelle per cui appartenere a una delle numerose hermandades, le confraternite di penitenti, è da sempre il segno inconfondibile di appartenenza a una casta. Magari da pagare a caro prezzo, come la bambina che, trasudando lacrime e sudore, sfodera uno sguardo omicida: se solo potesse, fulminerebbe chi l’ha convinta a trascinare per le strade acciottolate di Antigua una delle tante Vergini Addolorate che accompagnano la Semaña Santa più spettacolare dell’America Latina.
La Domenica delle Palme
Quella che potrebbe essere ritenuta una delle poche feste capaci di unire questo Paese dalle anime troppo spesso contrastanti, inizia ufficialmente la Domenica delle Palme quando le contadine maya si affannano a intrecciare rami di foglie di palma sui sagrati delle chiese. Lo fanno da secoli, più precisamente dal 1543 quando andò in scena la prima processione, e da allora poche città dell’America Latina hanno saputo conservare così gelosamente le tradizioni dell’epoca coloniale come ha fatto Antigua.
L’illusione è perfetta, un romantico scenario di pieni e di vuoti, di quinte teatrali nobilitate da antichi blasoni, orfani di un tempo in cui erano l’orgoglio della corona di Spagna. Potrebbe essere l’Andalusia di qualche secolo fa, ma per cambiare continente basta alzare gli occhi verso un anfiteatro di vulcani color cenere, una cintura di fuoco che ha pietrificato per sempre Antigua, trasformandola in un salto repentino nel sedicesimo secolo quando Diego Iñiguez, uno dei primi cronisti della colonia, scriveva: «Sentendosi qui uno isolato dal mondo e vicino al cielo…».
I conquistadores che non badavano a spese nell’affibbiare nomi così lunghi da sembrare titoli nobiliari l’avevano battezzata Muy Noble y Muy Leal Ciudad de Santiago de los Caballeros, tanto per far capire ai maya chi comandasse senza però fare i conti con i vulcani che nel 1773, dopo un micidiale sequel di terremoti inesorabili come lame di rasoio, li avevano definitivamente convinti a trasportare la capitale a Ciudad de Guatemala. La magia però è rimasta, annidata in ogni pietra di facciate che sembrano un teatro barocco e nella cupola squarciata di una cattedrale che finisce direttamente nel cielo.
Una preghiera per i vulcani
Ha sempre sedotto tutti, anche senza bisogno di scenografici incensi, questo precario paradiso dove chiunque, anime in pena o no, si è affannato a supplicare i santi del suo paradiso che i vulcani non si svegliassero di cattivo umore. Un onirico rito collettivo officiato ogni anno soprattutto durante la Semaña Santa quando migliaia di penitenti si attorcigliano per giorni e notti in percorsi serpentiformi creando un gigantesco e inestricabile ingorgo di santi, Cristi ricoperti di sangue, Madonne dallo sguardo languidamente emaciato e visioni ondeggianti di penitenti velate che trasudano sudore e sensualità.
Alla fine, si imbottigliano tutti irreparabilmente nella Plaza Mayor dove un negozio di elettrodomestici invece di inutili adesivi di polizie private dagli improbabili nomi hollywoodiani si fregia di un ben più significativo «Questo locale è protetto dallo Spirito Santo». Forse ne avrebbero bisogno anche le comitive di gringos un po’ provati che cercano penosamente di mimetizzarsi tra i locali ostentando rami di palma come se fossero ventagli andalusi.
Il penitente Felipe e le discoteche
Quando chiedo in spagnolo a un cucurucho, «dov’è la velacion?», una di quelle interminabili veglie pasquali che si susseguono nelle chiese di Antigua, lui mi risponde con un «no entiendo» dall’accento irresistibilmente anglosassone. Avrei dovuto capirlo subito dagli occhialini rotondi e dalla faccia troppo pallida, i gringos si stanno infiltrando persino nelle hermandades, le più tradizionali istituzioni di Antigua. «Una volta durante la Settimana Santa ad Antigua la musica non era permessa neanche di sera e le discoteche si sono impadronite della città» sbotta seduto a un tavolo del Comedor Tipico Antigueño, Felipe, penitente viscerale per molti anni. «Un tempo era fede, oggi è solo un rivaleggiare in vestiti e i proprietari delle catene alberghiere sono tra i più generosi nelle offerte alle confraternite».
La velaciòn
Il timore dell’ennesima Gringotenango, l’ironico soprannome che i guatemaltechi affibbiano alle località vampirizzate da colonie di statunitensi a caccia di sole ed esotismo, si dissolve pochi minuti dopo quando un improvviso suono di pifferi segnala una velaciòn. All’interno della chiesa i campesinos scesi dai villaggi aggrappati alle falde dei vulcani si affollano commossi davanti agli apocalittici dipinti naif che ripercorrono le tappe della Passione come se fossero tavole di un cartoon con tutti gli effetti speciali del caso. Lampi e tuoni scuotono le quinte di un tempestoso mare di cartapesta su cui galleggia precariamente il Nazareno, mentre musiche celestiali accompagnano «buoni», quasi sempre bianchi con i capelli biondi, e peccatori, rigorosamente di pelle scura, insidiati da assatanati demoni che si affacciano dal buco di un fondale di cartapesta.
Tappeti di segatura e petali
La Settimana Santa di Antigua va vissuta la notte del giovedì, quando nessuno va a dormire e la popolazione affolla le strade per decidere con animate discussioni quali sono le alfombras più belle, i tappeti di segatura colorata e petali di fiori che coprono il selciato delle strade su cui passeranno le processioni. La gente li progetta per settimane con riunioni allargate di famiglia in cui viene minuziosamente discusso ogni particolare. «Una notte di lavoro e tutto verrà distrutto in un minuto all’alba del Venerdì Santo, è la tradizione señor», è solo l’inizio di una lunga giornata in cui va in scena una barocca teatralità ritualizzata, celebrata da un andirivieni implacabile di processioni, da quelle famose per spettacolarità e numero di penitenti a quelle più dimesse e quasi intime.
Quello che non cambia sono i costumi, arrivati direttamente dalla Spagna al seguito della Conquista nel sedicesimo secolo per diventare rapidamente appannaggio di creoli e nobili. Ogni colore, ogni particolare si carica di un significato simbolico a partire dal termine cucurucho, «cartoccio», che si riferisce alla lunga tunica morada indossata durante la Semaña Santa, eccetto il Venerdì Santo quando qualche hermandad sfoggia ancora il nero tradizionale, mentre alcuni gruppi di palestinos si vestono come al tempo della Gerusalemme biblica.
La mantellina utilizzata il Giovedì Santo è bianca in ricordo dell’istituzione dell’Eucarestia mentre la cintura simboleggia l’autoflagellazione in voga nell’epoca coloniale. Il volto un tempo era coperto da un cappuccio a cono che lasciava scoperti solo gli occhi, un look sempre più raro dopo essere stato a lungo proibito per evidenti motivi durante le numerose dittature del ventesimo secolo. Tutte le hermandades hanno un loro inno, suonato all’inizio e alla fine della processione mentre le marce funebri sono fondamentali per mantenere la cadenza. Ogni giorno commemora un episodio della Passione, dall’entrata a Gerusalemme la Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua quando si celebra la Resurrezione. Il lunedì c’è un attimo di tregua ma si riparte in un pathos crescente, il martedì con una processione de La Merced e il mercoledì con quella riservata ai bambini, il Giovedì Santo iniziano le grandi processioni con San Cristòbal El Bajo e San Francisco El Grande. Un crescendo che raggiunge il suo parossistico zenit il Venerdì Santo con decine di processioni che si muovono in un apparente caos che nasconde un’organizzazione quasi militare e si acquietano solo nell’ora sacra della siesta per ricominciare quando le ombre della sera scacciano l’ultimo sole e Antigua sfodera un fascino spudorato che lascia insensibili solo penitenti e soldati romani.
«Quelli di San Felipe spaccano il minuto, mica come questi che partono con ore di ritardo» commenta sconsolato un tamburino nell’interminabile attesa della Consagrada imagen del Señor Sepultado de la Escuela de Cristo tra i sogghigni di approvazione dei maya prezzolati per spingere decine di carretti che portano a spasso una surreale versione semovente della Via Crucis scolpita nel legno. Visioni che svaniscono nella notte, mentre due cucuruchos commentano sfiniti «Fino all’anno prossimo è fatta», forse lo pensano persino le statue dei santi che si affacciano dai grandi retablos, gli altari dorati di una Spagna assetata di autoflagellazione che scivolano lentamente nell’ombra mentre le navate diventano oscuri labirinti.
Il ritorno della calma
Fuori, tornata la calma, ogni angolo di questa ciudad de los misterios racconta storie sinistre e fantastiche di anime in cerca della pace eterna, soprattutto Calle de las Animas dove si possono incontrare carretti tirati da mule senza testa, dame con occhi senza orbite e, con un po’ di fortuna, la Llorona, la «piagnona» che si aggira disperata piangendo i figli perduti.
Malmaritate e ragazze dovrebbero stare attente a un piccoletto con un gran sombrero, el sombreron che prima si esibisce in una serenata poi, se una di loro gli dà corda, annoda i capelli della malcapitata con una treccia che non si scioglie mai più. Guai poi a tagliarsi la chioma, perché lui si vendica rubandole l’anima. Calle del Desengaño è frequentata dal fantasma della figlia del conquistador Pedro de Alvarado, uccisa dal marito che l’aveva scoperta proprio qui abbracciata a un amante. Per chi alza un po’ troppo il gomito c’è poi il cadejo, uno strano cane bianco che rastrella senza pietà nottambuli ubriachi tra le numerose cantinas che punteggiano l’omonima strada intitolata a questo cattivissimo cane in versione mitologica.
Arroganti capitani, vescovi dall’oscura sensualità, avventurieri, austere monache e poveracci se ne sono andati per sempre, ma Antigua nasconde ancora mondi stranianti, bozzoli di pietra protetti da svolazzanti angeloni che nascondono malinconici giardini in cui vivono le loro vite segrete i Panzas Verdes, le antiche famiglie locali chiamate ironicamente così in tutto il Guatemala per la loro sfrenata passione per gli avocados.
I loro, più che cognomi, sono i biglietti da visita di un’inarrivabile casta di discendenti degli hidalgos spagnoli protetti da un passato che nessuno potrà mai comprare. Perché quelle mura corrose da secoli di storie ti guarderanno sempre dall’alto, come un verdadero Panza Verde nascosto dietro il suo cappuccio da cucurucho guarda i turisti che si illudono di diventare parte di questo inarrivabile teatro mobile.