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L’eccentrica normalità di Martin Parr

Da diversi decenni il fotoreporter racconta con i suoi scatti, tra gravità e umorismo, la nostra società dei consumi
/ 24/03/2025
Sebastiano Caroni

Un uomo anziano cammina su una strada, muovendosi lentamente, con un girello, al collo una macchina fotografica. Non c’è molta gente attorno a lui, in generale l’uomo con il girello passa inosservato, e se la gente lo incrocia, non dà cenno di notarlo.

Ogni tanto, però, quell’uomo si ferma, le sue mani abbandonano il girello e con gesto fluido, spontaneo, calcolato, afferra la macchina fotografica, se la porta agli occhi, e scatta: una, due, tre foto, a seconda del momento, dell’occasione. E poi rimette le mani sul girello, nello stesso modo fluido, quasi flemmatico, con cui le aveva staccate qualche secondo prima. E riprende a camminare: aggirandosi, inosservato, tra i passanti.

L’uomo che cammina è il fotoreporter Martin Parr in una delle scene iniziali di I am Martin Parr, il recente documentario diretto da Lee Shulman che ripercorre la pluridecennale carriera del fotografo inglese. Anche se ormai passa i settanta, in realtà Parr non ha bisogno del girello per spostarsi, ma lo usa per non dare nell’occhio. Per osservare in tutta tranquillità e, quando lo ritiene opportuno, scattare una foto. La sua discrezione, la sua capacità di confondersi fra la gente, gli permettono di essere un testimone privilegiato della quotidianità.

A volte, però, quando incontra un soggetto che lo incuriosisce, non si limita a restare nell’ombra: si avvicina, improvvisa qualche battuta, apparentemente casuale, che disarma le difese personali e mette a proprio agio. Come quando incontra una signora e si complimenta per i suoi orecchini. La signora ringrazia, è lusingata, si rilassa. E Parr, a questo punto, indisturbato immortala proprio quegli orecchini.

Pur essendo molto dirette, frutto del momento, istantanee della quotidianità, le fotografie di Parr nascono pur sempre da una consapevolezza e da una sensibilità fuori dal comune. In un’epoca in cui lo scatto fotografico è diventato un’ossessione globale, gli stratagemmi un po’ sornioni messi in atto da Parr ci ricordano che, per essere un bravo fotografo, non basta avere un apparecchio, magari anche all’avanguardia. Ci vuole mestiere perché la fotografia, a volte, te la devi costruire.

Il documentario su Martin Parr, uscito nelle sale cinematografiche italiane alla fine di febbraio, corona una carriera che da più di trent’anni vede Parr fra gli assoluti protagonisti della fotografia contemporanea. La data più significativa, in questo senso, è quella del 1994, momento in cui il fotografo entra a far parte dell’esclusivo mondo dell’agenzia fotografica Magnum, che riunisce sessanta tra i migliori fotografi al mondo, garantendone la diffusione delle opere e la tutela dei diritti di autore.

Se la consacrazione di Parr coincide, in parte, con quella data, d’altra parte essa non si esaurisce in quel momento, ma diventa un processo che si diluisce, un rituale che si rinnova nel tempo grazie soprattutto a nuove e molteplici occasioni per celebrare il valore e l’attualità dell’artista.

Parr, per dire, stabilisce un record invidiabile quando, nel 2000, la serie di fotografie Common Sense viene esposta contemporaneamente in quaranta sedi museali e in dieci Paesi diversi. Nel 2003, un’importante mostra alla Tate Modern di Londra dall’accattivante titolo Cruel and Tender racconta, attraverso gli scatti di Martin Parr e di altri illustri fotografi, l’importanza della fotografia documentaristica nell’ampio e intricato contesto dell’arte del Novecento.

Ricordiamo, poi, la recente Short and Sweet, prima a Milano e poi a Bologna, senza dimenticare la mostra intitolata Chromoterapia. La fotografia che rende felici – che è ancora possibile visitare, fino al 9 giugno – allestita negli spazi di Villa Medici a Roma; una collettiva curata da Maurizio Cattelan e Sam Stourdzé che ripercorre la storia della fotografia a colori attraverso lo sguardo acuto di Martin Parr e di altri diciotto artisti. Come dimostrano questi esempi, il processo di consacrazione di un artista non ha mai fine.

Con una carriera così lunga alle spalle, e uno stile sempre in evoluzione, Martin Parr è riuscito, in qualche modo, a rimanere sempre fedele a sé stesso, e le sue fotografie nel tempo mantengono una loro cifra riconoscibile.

Come afferma in maniera sintetica e precisa Roberta Valtorta nell’introduzione all’intervista a Parr inclusa nel catalogo della mostra Short and Sweet: «Da quasi cinquant’anni Parr indaga fin dentro le sue minime pieghe la civiltà contemporanea prigioniera dei consumi, dello spreco, dell’abbondanza di cibi, abiti, oggetti, del cattivo gusto, degli schemi del tempo libero massificato».

A precisare il concetto ci pensa lo stesso Parr nell’intervista, quando dice: «Credo che il soggetto principale di tutto il mio lavoro sia il tempo libero e il modo in cui lo si impiega: hai l’opportunità di decidere cosa fare e come, e il fatto che le persone abbiano questa grande possibilità di scelta mi ha fatto pensare che sarebbe stato importante occuparmene».

Con grande eleganza e lucidità, quasi in perenne equilibrio fra la critica sociale e l’umorismo, ma pur sempre mantenendo un grande rispetto nei confronti dei soggetti che fotografa, Parr riesce a cogliere quelle situazioni e quegli attimi di grazia in cui la società ci mostra i suoi eccessi, le sue derive, il suo lato grottesco – o, come dice bene Valtorta, «carnevalesco» –, le sue contraddizioni, incongruenze e dissonanze.

A rendere ancora più potenti certe sue immagini, poi, è il fatto che i soggetti che fotografa, che siano bagnanti in spiaggia o turisti asiatici in vacanza, sembrano del tutto ignari che i loro volti, le loro pose, i gesti, i vestiti, gli oggetti che portano addosso, e le situazioni in cui si ritrovano, si configurano, per l’osservatore, come tante sorprendenti epifanie della contemporaneità.

Se è vero che, come dicono linguisti e semiologi, in qualsiasi situazione sociale non possiamo esimerci dal comunicare con la voce e con il corpo, altra è la questione del significato, e della pregnanza, di ciò che comunichiamo. La grandezza di Parr, in questo senso, è di far emergere lo straordinario dall’ordinario, e di fissare in un’immagine l’eccentrica normalità del mondo di oggi.