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Un giro di danza nel giardino del coraggio
In un angolo nascosto di Teheran, due solitudini si incontrano per riscoprire l’amore e la libertà, sfidando il tempo e le leggi della società iraniana
Nicola Mazzi
È una storia semplice, eppure molto potente. Presentato alla Berlinale dello scorso anno, vincitore del Premio della Giuria e fra qualche giorno nelle nostre sale, Il mio giardino persiano (My Favourite Cake) dei registi iraniani Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha racconta con dolcezza e delicatezza l’incontro tra due anziani che riscoprono l’amore.
Mahin, settantenne vedova da trent’anni, ha sempre rifiutato di risposarsi. Da quando sua figlia si è trasferita all’estero, vive sola nella sua grande casa con giardino a Teheran. Stanca della solitudine, decide di avvicinare Faramarz, un anziano tassista ed ex soldato, anch’egli destinato a una vecchiaia in solitudine. Lo invita a casa sua per trascorrere una serata insieme, ignara che quell’incontro cambierà per sempre le loro vite.
Lui ha servito il Paese durante la rivoluzione del 1979. Lei ricorda con nostalgia i giorni dello Scià, quando frequentava hotel di lusso, indossava tacchi alti e cantava le canzoni di Al Bano e Romina. Due mondi distanti, eppure destinati a intrecciarsi in un piccolo angolo di libertà, al riparo dai muri del giardino di Mahin.
Fuori da quel rifugio segreto, la società iraniana impone rigide restrizioni alle donne: la polizia morale vigila affinché l’abbigliamento sia conforme alle norme religiose e la libertà di movimento è limitata. Dentro il giardino, invece, esiste un’altra realtà: si beve vino proibito, si balla senza paura e si assapora una sontuosa torta alla crema, simbolo di una libertà tanto semplice quanto rivoluzionaria (da cui il titolo originale).
Anche dal punto di vista formale, il film si distingue per la sua essenzialità. È infatti costruito su gesti minimi, sguardi teneri e battute leggere e ironiche. La macchina da presa è discreta, quasi invisibile, con inquadrature per lo più fisse e movimenti misurati che seguono i protagonisti senza inutili virtuosismi. La luce naturale del giorno, che illumina le scene esterne, si contrappone a quella più intima e calda degli interni, accentuando il contrasto tra il mondo fuori e quello dentro il giardino, non solo visivamente, ma anche ideologicamente. I dialoghi non sono mai banali, ma traspirano verità e passato, esperienze vissute e un presente complicato. E tutti sono pacati, senza eccessi né drammatizzazioni.
Il riferimento alla difficile condizione delle donne in Iran è chiaro, ma mai didascalico. Il film è stato girato in un momento drammatico, proprio durante l’uccisione di Mahsa Amini, vittima della legge sull’obbligo del velo. «Le riprese – hanno raccontato i registi – dovevano restare il più possibile segrete. Non potevamo ignorare ciò che stava accadendo nelle strade. Con il nostro cinema cerchiamo di rappresentare la realtà della società iraniana, spesso sepolta sotto strati di censura. Abbiamo scelto di infrangere alcune restrizioni, consapevoli delle conseguenze».
E le conseguenze non hanno tardato ad arrivare: quando il film è stato selezionato per la Berlinale, ai registi sono stati ritirati i passaporti, impedendo loro di presentarlo. Il governo iraniano ha etichettato l’opera come «propaganda contro il regime e minaccia alla sicurezza nazionale».
Il mio giardino persiano è un film commovente, poetico e diretto come uno schiaffo che non fa male sulla pelle, ma nel cuore. Parla d’amore e di libertà, di quotidianità e di storia, con un finale sorprendente che, ovviamente, non sveleremo. Un invito sincero a non perderlo: nelle nostre sale sarà visibile a partire dal 27 marzo.