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Parità di genere: la storia si può cambiare
Romina Borla
Gira da trent’anni ma rimane poco conosciuta e applicata. Stiamo parlando della Legge federale sulla parità dei sessi (LPar) che «mira a promuovere l’uguaglianza effettiva fra donna e uomo» nel mondo del lavoro, vietando ogni forma di discriminazione basata sul genere. Una norma approvata nel 1995, appunto, ed entrata in vigore il 1° luglio 1996. Ma in Ticino le azioni giudiziarie promosse annualmente sulla base della LPar si contano sulle dita di una mano e, in tanti altri Cantoni, la situazione è simile. Secondo un’inchiesta della Conferenza svizzera degli Uffici di conciliazione dedicati, a livello nazionale sono state promosse 97 procedure nel 2021, 72 nel 2022 e 39 nel primo semestre del 2023. Nel nostro Cantone rispettivamente nessuna, 2 e 2.
Questi dati non sono di certo dovuti all’idilliaca situazione delle lavoratrici elvetiche. Lo affermano le addette ai lavori, ad esempio le avvocate di Equi-Lab, un servizio di consulenza in materia di conciliabilità e pari opportunità (www.equi-lab.ch). I licenziamenti al rientro dal congedo maternità sono «uno sport piuttosto diffuso» alle nostre latitudini, come anche le molestie sessuali. Per non parlare delle discriminazioni al momento dell’assunzione o in caso di promozione, e delle differenze di salario… Se si guardano le Cifre della parità online dell’Ufficio cantonale di statistica si scopre che, nel 2022, le donne nel settore privato guadagnavano 719 franchi in meno al mese rispetto agli uomini; nell’ambito pubblico circa 577 franchi.
Tutti casi contemplati dalla legge ormai trentenne che, come detto, spesso e volentieri non si traducono in procedimenti giudiziari. Nonostante la LPar abbia introdotto delle «facilitazioni» che avrebbero dovuto favorire questa evoluzione. Ad esempio l’alleggerimento dell’onere della prova (fatta eccezione per i casi di discriminazione al momento dell’assunzione e di molestie sessuali): la/il dipendente deve rendere verosimile l’esistenza di una discriminazione, mentre spetta al datore o alla datrice di lavoro dimostrare il contrario. Oppure la possibilità di proporre un’azione collettiva: i sindacati e le organizzazioni che promuovono la parità possono intentare una causa, se questa ha ripercussioni su un certo numero di rapporti di lavoro. È prevista anche la protezione dal licenziamento durante tutta la procedura (reclamo, conciliazione, procedura giudiziaria) e nei sei mesi successivi.
I motivi, dunque, di questo «silenzio giudiziario»? In primo luogo la scarsa conoscenza della LPar stessa, e non solo da parte del grande pubblico. Addirittura taluni/e avvocati/e e giudici dei Tribunali tendono a non applicarla, riferendosi prioritariamente ad altre, più generiche normative. Poi la reticenza delle lavoratrici a imbarcarsi in un’enorme fatica, nel grosso impegno emotivo che una causa può comportare, richiedendo tempi lunghi, magari in momenti delicati della vita come una neo-maternità. E forse – sempre da parte delle donne – anche l’adeguarsi a dannosi stereotipi di genere, come quello della figura gentile, accogliente, remissiva, fragile e laboriosa, che non chiede nulla o quasi in cambio. Mentre si tratta di entrare nell’ambito dello scontro con datore di lavoro, capo oppure collega. Altro elemento da considerare: capita che, alzando la voce, si finisca messe all’angolo o si venga giudicate male.
Ma la storia si cambia. Non solo in occasione di questo 8 marzo gli schemi si possono forzare, abbracciando il lato combattivo dell’esistenza, anche per chi viene dopo. Per questo è necessario studiare, conoscere in dettaglio i propri diritti, imparare sempre più a parlare di soldi e gestirli in autonomia (la prima fonte di indipendenza), chiedere salari adeguati e promozioni. Far sentire la propria voce in caso di abusi, mostrare il proprio dissenso, le proprie ragioni. Anche davanti a un/a giudice. La LPar esiste proprio per tutelarci.