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Hong Kong tra radici storiche e spinte globali

L’evoluzione urbanistica e culturale della città simbolo della fusione tra Oriente e Occidente, in un viaggio attraverso skyline, feng shui e cultura pop
/ 10/02/2025
Marco Moretti, testo e foto

La giacca di Mao Zedong in cashmere di tutti i colori con la fodera in seta decorata dai multipli con cui Andy Warhol raffigurò il leader cinese, è la nota creazione pop con cui Shanghai Tang, il più famoso fashion designer di Hong Kong, dipingeva nel 1996 il futuro della Cina. La colonia britannica situata alla foce del Fiume delle Perle, Hong Kong, era di fatto vista come un ponte, politico e culturale, tra Cina comunista e Occidente.

Il take-away cinese – come lo scrittore Paul Theroux battezzò in Ultimi giorni a Hong Kong il passaggio della colonia britannica a Pechino nel 1997 – fu però ben diverso dalla metafora dello stilista. Non fu la Cina a diventare come Hong Kong, bensì il contrario. Non ci furono gli espropri – tra squallore, inganno e corruzione – narrati nel romanzo dell’autore americano. Ma, a metà percorso, Pechino non rispettò gli accordi che concedevano a Hong Kong cinquant’anni di autonomia politica e, reprimendo i movimenti per la democrazia, provocò l’esodo di 300mila giovani professionisti (su sette milioni e mezzo di abitanti) verso Paesi più liberali: soprattutto Canada e Australia. Intervento che influenzò negativamente l’economia di una città, un tempo tra le più dinamiche del mondo.

Sempre più cinese

In quella che fu una delle maggiori piazze finanziarie, la borsa stagna ai livelli del 1997. Ed è crollato il turismo occidentale. Oggi la quasi totalità dei visitatori, come degli investimenti, viene dalla Repubblica Popolare. Hong Kong è sempre più cinese.

M+ – il maggiore Museo di arti visive dell’Asia, inaugurato nel 2021 a West Kowloon – insegue la Rivoluzione Culturale Proletaria (1966-1976) tra filmati e grafica di propaganda dell’epoca, oltre a spaziare tra arte contemporanea e design di tutto l’Estremo Oriente. E l’opera Chanel n. 5 del pechinese Wang Guangyi – un manifesto icona delle guardie rosse contaminato dalla famosa maison – sembra la risposta, sempre in chiave pop, alla provocazione di Shanghai Tang.

L’edificio che ospita M+ è diventato uno dei simboli di Victoria Harbour, la baia che divide Hong Kong Island da Kowloon: le due principali aree della città, gli opposti che la compongono.

Hong Kong Island

A Hong Kong Island – l’isola improduttiva di 80 kmq ceduta da Pechino a Londra nel 1841 dopo la sconfitta della Prima Guerra dell’oppio – si coglie ancora l’impronta britannica. Colorati tram di latta a due piani trillano tra il canyon di avveniristici grattacieli che forma i quartieri Central e Wan Chai (nucleo originario della colonia). Torri di acciaio e cristallo svettano con forme appuntite, squadrate, ellittiche: s’innalzano con vetrate nere, azzurre, dorate. Edifici costruiti con impalcature di bambù: la pianta simbolo della tenacia orientale al servizio di un’urbanistica proiettata nella fantascienza.

L’assetto stradale di Hong Kong Island si articola su diversi livelli. Il fondo strada è per il traffico, che infuria con tram, auto e bus tra svincoli di cemento. Mentre uomini e donne passeggiano tra marciapiedi e viadotti appoggiati al primo piano degli edifici: un labirinto di passerelle e piazze che conducono a banche, alberghi, centri commerciali. E da Central la scala mobile più lunga del mondo risale per 800 metri la montagna tagliando vie e slarghi su cui si affacciano pub, ristoranti, boutique e immancabili gabbiette di uccelli.

Un futurismo tradizionale

È la città del futuro che ispirò nel 1982 al regista Ridley Scott Blade Runner, il film cyber-punk ambientato in una distopica Los Angeles del 2019, ma con molte scene girate proprio a Hong Kong, come quella del jet che (nei pressi del vecchio aeroporto) sorvola a bassa quota una via piena di ristoranti all’aperto con i cibi spadellati nei wok su fuochi vivi.

Il modello urbanistico di Hong Kong – con diversi livelli per uomini e mezzi di trasporto e con treni che attraversano gli edifici – è copiato in questi giorni da Chongqing, la più popolosa municipalità del mondo (33 milioni di abitanti), il principale porto fluviale sullo Yangtse (Fiume Azzurro) situato al confine meridionale del Sichuan, nel centro geografico del gigante giallo.

Hong Kong è proiettata nel futuro ma è ancorata alla tradizione. I suoi grattacieli sono costruiti secondo le regole del feng shui per indirizzare la sorte. La torre dell’Hong Kong Shanghai Bank (HSBC) – la cattedrale del commercio del distretto finanziario di Central – fu progettata da Norman Foster seguendo le indicazioni del consulente di geomanzia Koon Lung secondo il quale «i due leoni all’ingresso rappresentano la forza e i principi universali di ying e yang. L’interno dell’edificio è vuoto per accogliere l’energia veicolata dalla luce solare. La scala mobile sghemba è nella direzione propizia per portare il denaro al primo piano dove ci sono gli sportelli. La banca ha due porte, una rivolta alla montagna da dove arrivano i soldi, l’altra al mare, fonte d’influenze positive» .

Tra Tesla, Mercedes e Rolls Royce che solcano il traffico, a Hong Kong Island si ha la sensazione di essere in una delle città più ricche del pianeta. Una verità, come sempre, valida solo per alcuni. Con i prezzi degli immobili tra i più alti del globo, per molti la puntata sul cavallo vincente all’ippodromo di Happy Valley è l’unica possibilità di racimolare il capitale necessario a mettere su casa. La passione per l’azzardo accomunò inglesi e cinesi. Ma qui dove le credenze dell’antica Catay si mescolano all’alta tecnologia e al capitalismo selvaggio, gli impazienti hongkonghesi interrogano gli indovini del tempio confuciano di Wong Tai Sin, consultano gli oracoli per vincere al gioco: in borsa, come all’ippodromo di Happy Valley.

Nei vicoli dietro i grattacieli

La Cina dei brulicanti mercati alimentari e dei cibi gridati è dietro l’angolo dei grattacieli. Nel dedalo di vicoli a monte di Central, tra le bancarelle di Gage Street: un viaggio tra gli ingredienti della cucina cantonese, da un pastaio con trenta varietà di noodle (tagliatelle cinesi) a un’infinita scelta di baby verdure, dai pescivendoli ai macellai. Più una pletora di micro ristoranti che servono dim sum, noodle, wonton e l’infinita gamma di piatti cinesi. Come la popolarissima tea house Lan Fong Yuen, dove ci si siede dopo minimo mezz’ora di coda.

Da qui si sale tra vie gradinate fino a Hollywood Road, la strada degli antiquari costellata di negozi che mescolano tele, sculture, mobili, oggetti e gioielli importati da tutto l’Oriente con memorabilia maoista (statue del Grande Timoniere, manifesti e riviste della Rivoluzione Culturale) diventata l’ultimo grido del modernariato cittadino. Al confuciano Man Mo Temple di Hollywood Road si ritrova la tradizione tra statue di antenati e riti con l’incenso. Ma a pochi passi, in Upper Lascar Row, nel vicolo dei rigattieri, le antichità di poco valore si mescolano a libretti rossi e ad altri oggetti del revival maoista.

Immediatamente a monte di Hollywood Road si trova Tai Kwun, l’ex stazione di polizia con annessi caserma e carcere (dove fu imprigionato il leader vietnamita Ho Chi Minh) restaurati e trasformati in spazi espositivi per mostre di arte contemporanea e sulla storia della città.

Al tramonto, una cremagliera conduce all’osservatorio di Victoria Peak, dove lo sfavillio di luci dei grattacieli, accese attorno a Victoria Harbour, mostra il fascino di una baia reputata tra le quattro più belle del mondo insieme a Rio de Janeiro, San Francisco e Sydney.

Un panoramico viaggio in ferry, o pochi minuti in metropolitana attraverso un tunnel sottomarino, portano sull’altro lato della baia. Nel formicaio di Kowloon. La città completamene cinese con il triste record della peggiore condizione abitativa urbana: centinaia di migliaia di poveri vivono – in appartamenti iperfrazionati – in loculi o in gabbie della dimensione di un letto singolo. Disagio celato, secondo l’abitudine cinese a non manifestare mai i propri sentimenti.

Bruce Lee

Kowloon con il primo chilometro di Nathan Road disseminato di centri commerciali e boutique. Al 218 di Nathan Road, visse con la famiglia Bruce Lee, il più famoso figlio di Hong Kong. Il cineasta a 360 gradi che portò sugli schermi di tutto il mondo l’arte marziale del Jeet Kune Do. In realtà nacque a San Francisco dove i genitori, cantanti dell’Opera Cantonese, si trovavano in tournée. La casa in cui visse da bambino non esiste più, fu demolita per costruire lo shopping centre che s’incontra oggi a quell’indirizzo.

Bruce Lee fu un personaggio fuori dal comune anche per il mondo del cinema. In soli quattro film interpretati nel ruolo protagonista, tra 1971 e 1973, raggiunse una popolarità mondiale con combattimenti e spettacolari salti mescolati a una ingenua filosofia del bene, della lotta contro oppressione e ingiustizia, che i nemici fossero malfattori o invasori giapponesi, come in Dalla Cina con furore. I tre dell’Operazione del Drago, il suo ultimo film in gran parte girato a Hong Kong – tra Aberdeen Harbour, Tai Tam Bay, il monastero di Tsing Sham in Tuen Mun e l’’Hong Kong Cemetery in Happy Valley – produsse il secondo maggior incasso alla Warner Bros dopo L’esorcista.

Il volto miserabile della città

Il volto presentabile di Kowloon termina tra odori, colori e sapori del night market di Temple Street. Per poi cedere a una brutta quando non fatiscente architettura: il volto miserabile della città. Qui, in 41 Cumberland Road, tra vecchie case degradate di un quartiere popolare, Bruce Lee visse fino alla morte. Hong Kong lo celebra con la Gallery 6 nel periferico Hong Kong Heritage Museum: esposizione di foto, oggetti, memorabilia, video e dimostrazioni di Jeet Kune Do, l’ibrida arte marziale da lui inventata. E con una stella sulla Avenue of Stars di Kowloon: si trova alla fine di Tsim Sha Tsui, l’affollatissimo lungo baia con vista su Hong Kong Island.

Kowloon nel weekend è invasa dalla massa di turisti che arrivano dalla Cina: la megalopoli di Shenzen è a soli quindici minuti di treno. In Nathan Road, la congestionata via dello shopping, il sabato e la domenica è persino difficile camminare. Mentre a Tsim Sha Tsui migliaia di giovani coppie cinesi si scattano selfie sullo sfondo della skyline di Hong Kong Island, di una celebrata cartolina, di un mondo agognato che non esiste più.