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Due volte Campione sullo schermo

Film Festival: alle Giornate di Soletta e alla kermesse di Rotterdam si fa protagonista il Casinò dell’enclave
/ 03/02/2025
Max Borg

La stagione dei festival europei include, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, due appuntamenti importanti quali le Giornate di Soletta, da poco terminate, e l’International Film Festival Rotterdam, ora in corso; il primo è dedicato alla produzione elvetica, il secondo al cinema mondiale con un occhio di riguardo per le opere che pensano fuori dai canoni prestabiliti. Per una curiosa coincidenza di calendario di produzione dei rispettivi film, entrambi gli eventi presentano dei lungometraggi sullo stesso argomento: il Casinò di Campione d’Italia, protagonista di Architektur des Glücks a Soletta (22 - 29 gennaio) e Un Gran Casino a Rotterdam (30 gennaio - 9 febbraio).

Due progetti molto diversi a livello concettuale, accomunati dalla durata breve (entrambi intorno ai 77 minuti), dal sostegno della Ticino Film Commission e da un minimo d’ironia, che nel caso di Architektur des Glücks (letteralmente, «architettura della fortuna») si limita al titolo, che allude beffardamente all’origine del Casinò come luogo per il divertimento degli inizi e al suo attuale destino infausto, tra bancarotta e successiva riapertura, che ha mandato nel panico la cittadinanza di Campione, quel microcosmo italiano circondato dalla Svizzera, sulle rive del lago di Lugano.

È un lavoro molto preciso, quello che hanno fatto insieme lo zurighese Michele Cirigliano e il collega tedesco Anton von Bredow, originario di Amburgo per Architektur des Glücks: il loro film ripercorre la storia dell’edificio e del suo impatto sul territorio, con la consueta alternanza di interviste e immagini d’archivio, dove la gloria dei primi tempi, ripresa dalle telecamere di SRF e RSI, si contrappone al grigiore odierno. Un ritratto abbastanza convenzionale nell’esecuzione, ma comunque efficace nel suo obiettivo di veicolare il rapporto deleterio fra quel monumento all’edonismo pecuniario e le persone che, quasi nolenti, hanno avuto a che fare con esso: «Era quasi una scelta obbligata, ce l’avevi sotto casa», ricorda uno che ha lavorato nell’edificio, in una conversazione svoltasi a Melide, nel bel mezzo della Swissminiatur, altra grande attrazione locale che però non ha mai avuto problemi equiparabili a livello gestionale e finanziario.

Questo per quanto riguarda la produzione audiovisiva svizzera (con la partecipazione della Germania); dall’Austria, invece, proviene il già menzionato Un Gran Casino, con quel titolo volutamente a doppio senso che rientra nella poetica irriverente del suo autore, Daniel Hoesl.

Si era già interessato a questioni elvetiche nel 2020 con il documentario Davos, presentato a Visions du Réel, dove si analizzava il contrasto fra chi in quella città ci vive e gli individui benestanti che vi si riuniscono ogni anno. In quell’occasione Hoesl aveva firmato la regia con la collega Julia Niemann, sua abituale compagna d’avventure fino allo scorso anno (Veni Vidi Vici, satira su un uomo che uccide impunemente chiunque gli capiti per strada), mentre per Un Gran Casino ha lavorato da solo. Non che la cosa abbia influito su come il cineasta si avvicini alla materia, quel simbolo del capitalismo che lui trova esteticamente e moralmente ripugnante.

Anche qui si parla di un certo grigiore, ma è espresso in termini visivi, con un bianco e nero che accentua il tocco un po’ surreale di Hoesl, il quale, oltre a mostrare con inquadrature statiche lo squallore generato dalla situazione poco stabile del Casinò, lo descrive con una voce narrante che è al contempo poetica e infuriata, mentre assistiamo al percorso di redenzione di un giocatore d’azzardo incallito sotto l’ala protettrice – ma sarà davvero così, conoscendo il regista? – della dea del denaro.

Un mix di ingredienti potentissimi, che insieme creano un film in bilico tra dura realtà e stralunata fantasia, un pamphlet di humour nero la cui forza sta nel minimalismo esplicito con cui porta sullo schermo un emblema dell’opulenza più sfrenata, grazie a una regia senza fronzoli e un minutaggio che mai farebbe pensare ad ambizioni epiche come quelle sottintese nell’ira cinematografica di Hoesl.

E così quel gran casino/casinò viene adeguatamente ridimensionato, tramite l’esibizione della sua piccolezza (spirituale) su schermi decisamente più grandi.