Asperiores, tenetur, blanditiis, quaerat odit ex exercitationem pariatur quibusdam veritatis quisquam laboriosam esse beatae hic perferendis velit deserunt soluta iste repellendus officia in neque veniam debitis placeat quo unde reprehenderit eum facilis vitae. Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipisicing elit. Nihil, reprehenderit!
Fiaba e dramma nel fiume votato a Shiva
Sulle rive del Narmada, nello Stato del Madhya Pradesh, dai sari pregiati di Maheshwar al lato oscuro di Omkareshwar
Marco Moretti, testo e foto
Per il visitatore l’India è come un temporale. In alcuni casi innaffia il seme dell’utopia con soluzioni sempre diverse da quelle occidentali. In altri casi mostra i suoi aspetti più scabrosi a conferma del detto «piove sul bagnato». Maheshwar – l’antica città situata in Madhya Pradesh al confine con il Maharastra (lo Stato di Mumbai) – è un armonico luogo dell’utopia in un Paese dove i drammi superano di gran lunga le buone notizie.
Affacciata sul Narmada, il fiume madre degli indù, il secondo più sacro dell’India dopo il Gange, Maheshwar è un esempio virtuoso. Una fiaba con tanto di principe azzurro. Perché qui, il forte, il complesso dei templi e i ghat (le scalinate che scendono al fiume per abluzioni e riti), sono gestiti dal principe Richard Holkar, discendente dell’ultimo mahārāja di Indore, un illuminato poliglotta che ha studiato storia dell’arte in Italia.
Il risultato è una città ordinata e pulita (eccezionale in India) con servizio di raccolta rifiuti anche sui ghat. Con l’Ahilya Fort – costruito dalla maharani Ahilyabai Holkar, la sovrana che governò Maheshwar dal 1765 al 1796 come complesso di residenze, uffici, salone delle udienze e templi indù – in parte trasformato in un piccolo albergo di grande charme per i pochi turisti che si avventurano da queste parti: è associato a Heritage Hotels.
Carta vincente di Maheshwar è il forte senso di appartenenza che si manifesta con la Rehwa Society per la diffusione della tradizione della tessitura, un’attività che qui risale al 500 dopo Cristo. In città ci sono almeno un centinaio di laboratori con telai. I sari maheshwari sono tra i più pregiati perché qui l’arte di intrecciare la trama con l’ordito incontra la poesia. In puro cotone, sono lunghi 8,3 metri. Di colore blu pavone o giallo brillante, verde foresta o tinti con il vermiglio estratto dalla radice del gelso. Toni percorsi da strisce rosse, bianche o oro. Con bordi che richiamano le onde, il sacro fiume, il fiore del cotone, i mattoni, le stuoie, i diamanti.
La Rehwa Society fu fondata nel 1979 dalla famiglia del mahārāja come un’organizzazione no-profit per preservare la tradizione artigianale e, allo stesso tempo, dare sbocchi economici e occupazionali alle donne locali, in particolare alle vedove, i soggetti più deboli di una società priva di sistema pensionistico. Coniugando business e welfare, tradizione e moda, la Rehwa dà lavoro a duecento vedove per produrre i sari classici ma anche linee molto più moderne. Oltre al laboratorio di tessitura del forte e all’emporio in cui si vendono i sari, comprende una scuola di educazione superiore.
Piccola Varanasi sul Narmada, Maheshwar è uno scrigno della cultura indù. Il cibo è solo vegetariano, diversi ashram ospitano corsi di yoga, la popolazione è benevola con i viaggiatori, non ci sono mendicanti e non si è mai importunati. Sui ghat, diversi sadhu (asceti itineranti) s’intrattengono in conversazioni filosofiche con i visitatori. Capita di essere invitati a pranzo a casa degli abitanti: evento rarissimo in India. E al tramonto i barcaioli solcano le acque del fiume offrendo spettacolari scenari ai loro clienti. Ci sono economiche guest house, con camere munite di bagno: spartane ma pulite. E, oltre che nei ristoranti, si mangiano casalinghi pasti vegetariani seduti a terra con gli altri commensali al Dal Bafle, un ashram vicino ai ghat.
Per gli indù, oltre che un fiume, il Narmada è una divinità ma anche una persona fisica e in quanto tale festeggia il compleanno l’ultima domenica di gennaio. Per l’occasione diversi cortei con carri floreali e bande musicali attraversano Maheshwar lanciando fiori e propagando note gioiose nelle sue strade. Poi raggiungono i ghat, dove a tutti sono offerti dolci e un pasto, dove si esibiscono gruppi musicali e swami (illuminati) distribuiscono benedizioni. Al tramonto centinaia di donne avvolte in sari purpurei posano sull’acqua ciotole fabbricate con foglie: racchiudono lumini che bruciano ghee (burro chiarificato). È l’ultima offerta al Narmada, il fiume votato a Shiva, il dio distruttore.
Nel frattempo, su un ghat più meridionale, anche la comunità musulmana rende omaggio al fiume – fonte di vita perché feconda i campi – lanciando fiori nelle sue acque. Un rarissimo esempio di sincretismo religioso in un Paese dove le due comunità spesso sono ai ferri corti. Maheshwar è un universo indù, ma a soli 40 chilometri Mandu è un trionfo dell’islam: un grande altopiano disseminato di moschee, palazzi, monumenti e cenotafi: ospita i migliori esempi di architettura afghana in India e resti che spaziano dal X secolo, quando fu fortificato da Raja Bhoj sovrano di Bhopal, fino alle ultime fasi del musulmano impero Moghul.
Settanta chilometri più a sud di Maheshwar si trova invece Omkareshwar. Situata alla confluenza del fiume Kaveri nel Narmada, è la sede del più importante tra i dodici jyotirlingam sparsi per l’India: è il fallo di Shiva, simbolo di fertilità dal culto millenario. È un affollato centro di pellegrinaggio, nonché sede di buon auspicio per celebrare matrimoni. Un’isola – collegata da due ponti a un borgo per il servizio ai pellegrini – su cui si snoda un anello di sei chilometri tra templi, santuari, scuole braminiche, ashram, bandara (mense vegetariane), alberi sacri, vacche, cani randagi, branchi di piccole scimmie dalla faccia nera e minuscoli insediamenti umani. È percorso ogni giorno da migliaia di pellegrini in estasi anche per l’uso del bhang, una variante commestibile di infiorescenze della cannabis legata al culto di Shiva.
All’opposto di Maheshwar, è un luogo crudo, sporco, pieno di mendicanti e percorso da una energia oscura. Giorno e notte è preda del chiasso alimentato da campane, motori dei battelli, sirene della diga e musiche dei matrimoni. È popolato da grossi macachi dalla faccia rosa. Omkareshwar non fa concessioni al turismo: per alloggiarvi è necessaria capacità di adattamento. In compenso si mangiano ottimi chapati (piadina indiana) cotti nella cenere e buona pasticceria, anche perché i laddu (palline dolci) aiutano la meditazione e avvicinano al divino. Molti indiani considerano Omkareshwar il lato nero di Shiva, mix di magnetismo e magia nera.
Omkareshwar salì all’onore delle cronache negli anni Novanta, quando – in seno al Narmada Valley Development Project – vi fu costruita la più discussa diga dell’India. Durante le proteste contro la sua realizzazione, fu arrestata la scrittrice Arundhati Roy, che sull’argomento pubblicò il libro La fine delle illusioni.