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Visioni intime e solitarie sul palco del Teatro Foce
In scena: l’identità femminile in evoluzione con Manuela Bernasconi e pagine di Stefano Benni per le letture di Emanuele Santoro
Giorgio Thoeni
Il pregio della rassegna Home sul palco del Teatro Foce di Lugano consiste, va ribadito, nel permettere visibilità a buona parte delle produzioni delle compagnie indipendenti della nostra regione. In quel contesto e prima della chiusura dell’anno abbiamo pertanto aggiunto un tassello al percorso creativo di Manuela Bachmann Bernasconi.
La danzatrice, coreografa e performer ha recentemente portato in scena Bucce (titolo inizialmente proposto nella sua versione inglese Husks), un debutto che a nostro avviso ha messo in rilievo il lato forse più maturo dell’artista ticinese con uno spettacolo che ha voluto rifarsi ad alcuni passaggi fra i più significativi dei suoi lavori precedenti aggiungendo nuove e interessanti ispirazioni.
È un breve coro tratto da un brano della monaca benedettina Hildegard von Bingen vissuta nel XII secolo ad accompagnare l’ingresso della danzatrice su una scena immacolata. Come una nudità limitata da una parete bianca appoggiata sul fondo che servirà come specchio per delle riprese dall’alto dei movimenti a terra della danzatrice. Come un occhio esterno e intimo, ma al di sopra di tutto. Sulle prime battute l’artista attraversa il palco da un lato all’altro con una corsa, come diretta verso una fonte di memoria corporea: uno dei temi percorsi con sicurezza e lievità nella riuscita performance.
È ancora la musica a dare una maggiore dimensione evocativa ai movimenti, sono composizioni di Cédric Blaser, atmosfere fascinose che ricordano sonorità dilatate che sfiorano il chitarrismo sperimentale di Fripp, Frisell o Scofield… uno spazio di sonorità avvolgenti, immaginifiche lungo una rapsodia di ritmi rarefatti.
Protetta da un simile contesto immateriale, la danzatrice accompagna il suo universo spiegando con voce fuori campo alcuni episodi della sua dimensione creativa unita a sequenze dove è il corpo a raccontarsi anche se non manca il riferimento alle difficoltà finanziarie con cui gli artisti si trovano a operare in una regione in cui sembrano essere stati dimenticati dall’istituzione, un adagio a cui siamo ormai purtroppo abituati.
Accenno a parte, la matrice del racconto che in un primo tempo fa da cornice a citazioni da spettacoli pregressi, passa poi all’intima relazione con la femminilità, la gravidanza, la maternità. Un excursus ben evidenziato in Mmitari del 2022, ma fra i temi che spesso accompagnano la sua ricerca coreografica sull’identità femminile in continua evoluzione. Come il corpo in scena. E quel camiciotto largo, mosso dalla sinuosità del busto in una danza principalmente a terra, alla conquista di una dimensione supplementare, un elemento autonomo che si vuole sfilare dalle braccia verso pudiche nudità.
Per la realizzazione della performance, l’artista si è circondata dei suoi collaboratori più fedeli. Oltre al già citato Blaser per le musiche, ritroviamo l’approccio visionario ed eclettico di Felix Bachmann Quadros e il disegno delle luci curato da Marzio Picchetti, una presenza ormai consolidata anche in ambito regionale.
Solitudine come finzione con Emanuele Santoro
Un’altra presenza nel cartellone di Home è quella di Emanuele Santoro. L’attore e regista ha da tempo trovato nei recital la sua dimensione ideale accanto a un leggio con l’accompagnamento musicale dal vivo. Anche questo è in parte il risultato di una precarietà cui il settore sembra quasi essersi arreso, senza però abdicare al vuoto pneumatico regalando qualità e inventiva in attesa di veri e propri allestimenti e, ci auguriamo, buone notizie anche sul fronte dei sussidi.
Per il momento dunque la lettura teatrale è la dimensione di Santoro che crea, con maestria, con una comfort-zone che regala pagine di autori scelti dal panorama letterario e teatrale. Un bignami stilistico fra le pagine di Boccaccio, Cervantes, Gogol, Pirandello, Lötscher, Casula con l’economista Cipolla. Una sorta di solitudine dei giusti per un elenco che l’attore ha nutrito ricalcando il motto secondo cui ogni solitudine contiene tutte le solitudini passate. Proprio come ha scritto Stefano Benni nel suo Signor Eremio, un racconto pubblicato sulle pagine di «Repubblica» nel 2020.
Non è dunque un caso se il brillante autore bolognese si inserisce perfettamente nella rassegna dei recital – intitolata Comicità della solitudine – per mezzo di Santoro che ha presentato al Teatro Foce tre letture tratte dalla raccolta La grammatica di Dio-Storie di solitudine e allegria (Feltrinelli, 2007) già proposte cinque anni fa nella vecchia sede del Cortile di Viganello. Nell’ordine, le letture di Mai più solo, Boomerang e L’Orlando impellicciato offrono gustose istantanee, crudelmente fedeli, di alcune delle finzioni contemporanee. Un respiro descrittivo graffiante, ancora sulla breccia per la loro attualità e sotto gli occhi di tutti: dai telefoni cellulari come status per apparire meno soli, alla soffocante presenza di un cane fedele, fin troppo fedele. Fino a una parodia del ben noto poema cavalleresco.