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Dove e quando
Munch. Il grido interiore. Milano, Palazzo Reale. Fino al 26 gennaio 2025. Orari: ma-do 10.00-19.30; gio 10.00-22.30; lu chiuso. palazzorealemilano.it
Munch e l’angoscia della modernità
Il mal di vivere dell’artista norvegese ritorna a Milano dopo quarant’anni di assenza
Elio Schenini
Quando sul finire dell’Ottocento la modernità ha travolto la società occidentale e le sue strutture secolari, nuove ansie, nuove angosce e nuove nevrosi si sono affacciate per la prima volta nell’animo umano. Trascinata dal movimento sempre più vorticoso degli alternatori elettrici e dei pistoni dei motori a scoppio, nel giro di qualche decennio la modernità ha infatti portato a compimento il processo di disciplinamento sociale che aveva favorito la diffusione del capitalismo fin dal XVI secolo e che Michel Foucault ha così acutamente analizzato in Sorvegliare e punire. Reprimendo ogni pulsione individuale non funzionale al sistema, il nuovo pervasivo sistema disciplinare ha trasformato l’Io in un’entità isolata perennemente attraversata da conflitti. Da allora, si potrebbe dire, l’uomo non è più riuscito a sentirsi pienamente «a casa» nel mondo che lui stesso aveva creato.
Se l’espressione «disagio della civiltà» si deve a Sigmund Freud che nel 1930, in un saggio ancora oggi estremamene attuale, è stato il primo a individuare e a teorizzare la conflittualità insanabile che si innesca tra le pulsioni primarie dell’individuo e i limiti sempre più stretti in cui è costretto dal progredire della civilizzazione, è anche vero che questo disagio aveva già trovato espressione, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, in ambito letterario e artistico.
Tra i primi e più significativi portavoce di questo nuovo male del vivere figurano curiosamente numerosi autori dell’estremo nord dell’Europa. Una circostanza per la quale si potrebbe avanzare un’ipotesti climatologica, se non siano cioè i lunghi, rigidi e bui inverni scandinavi a favorire un certo accanimento introspettivo in queste contrade ancora oggi «ricche e felici» ma con un alto tasso di suicidi.
In questa linea nordica al disagio esistenziale che possiamo far risalire al filosofo Søren Kierkegaard, e che include drammaturghi e scrittori quali August Strindberg, Henrik Ibsen e Knut Hamsun, figura anche l’artista che ancora oggi è noto a tutti per avere dipinto uno dei quadri più iconici della modernità, quello che dell’angoscia dell’uomo moderno è diventato l’emblema assoluto: il quadro è ovviamente L’urlo e il pittore è Edvard Munch.
A lui il Comune di Milano, grazie alla fondamentale collaborazione del Munch Museum di Oslo, torna a dedicare, dopo quarant’anni, una grande mostra che mira evidentemente a occupare una posizione di vertice nella classifica delle mostre italiane più visitate del 2024. Del resto, Munch è uno degli artisti che, assieme a pochissimi altri, continua a esercitare un richiamo irresistibile sul grande pubblico, come sappiamo bene anche in Ticino, dove la mostra del pittore norvegese presentata a Villa Malpensata nel 1998, con le quotidiane code ad affollare i marciapiedi del lungolago e gli oltre 136’000 visitatori complessivi, è rimasta nella memoria collettiva come un evento memorabile di una stagione probabilmente irripetibile.
Tanto più che a Lugano una delle tre versioni a olio dell’Urlo c’era (si trattava della prima, quella del 1893), mentre a Milano, segno di come sono cambiati i tempi da allora e di come sia sempre più difficile, per ragioni legate ai costi e alla sicurezza, spostare le opere di maggior valore, dell’Urlo è esposta solo una dimessa versione silografica in bianco e nero.
Tuttavia, nell’era della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, L’Urlo è ormai diventato un puro simulacro, un’entità incorporea assurta nell’empireo dell’iconosfera mediatica e come tale dotata del dono dell’ubiquità. Non poteva quindi mancare nemmeno a Milano. L’assenza in mostra non solo di una delle tre versioni a olio ma anche di quella a pastello è infatti compensata dalla superfetazione didattica di pannelli, filmati e testi esplicativi che le evocano all’interno del percorso espositivo, così come dall’infinita varietà di gadget disponibili nello shop sui quali il quadro è riprodotto e dall’ormai immancabile esperienza immersiva che con i suoi cromatismi accesi e mutevoli vorrebbe ricreare i paesaggi della psiche dipinti da Munch, finendo però per evocare più che altro le atmosfere di una discoteca degli anni Settanta. Sfondo perfetto per un selfie da postare su internet, come ci invita a fare la didascalia all’ingresso della sala.
In un’epoca in cui la nozione di mediazione gode di scarsa considerazione in tutti gli ambiti, dalla politica, all’informazione, alla conoscenza, e in cui prevale l’idea di un rapporto diretto, non mediato, con le cose, è sorprendente osservare la crescita esponenziale che ha interessato negli ultimi decenni il settore della mediazione culturale in ambito museale.
È come se il nostro tempo, completamente asservito a una logica utilitaristica, avvertisse la necessità di esorcizzare l’alterità irriducibile e il potenziale sovversivo dell’arte attraverso una forma surrogata di esperienza estetica che ne favorisca una facile, rapida e soprattutto indolore assimilazione. Più che di mediazione si potrebbe parlare di domesticazione, ma è un discorso generale e non riguarda in modo particolare la mostra di Milano che non è che uno degli innumerevoli esempi di questa tendenza ormai imperante.
Eppure, per chi ha la forza di fare astrazione dal contesto sovraffollato, di resistere alle lusinghe semplificatorie della didattica, di concentrarsi sull’essenzialità del rapporto visivo con le opere, la mostra di Milano rappresenta un’occasione unica per misurarsi con l’opera di Munch.
Il centinaio di opere esposte, tra cui molte significative, ripercorre infatti tutte le fasi della sua lunga e prolifica carriera artistica e documenta le grandi tematiche che l’hanno attraversata, come la malattia, la morte, la follia, la solitudine, l’amore e il rapporto con la natura. Con il loro stile abbozzato, che non mira alla piacevolezza ma alla verità, con il loro cromatismo acceso e stridente che riflette le inquietudini dell’animo umano, le opere di Munch ci mettono di fronte agli incubi e ai fantasmi che ancora oggi popolano il nostro inconscio.
Forse è per questo che quel grido, che continua ad attrarci, ma allo stesso tempo a spaventarci, lo abbiamo trasformato e continuiamo a trasformarlo in qualcos’altro: un’icona, un feticcio, un gadget, persino un fondale con un foro al centro, come quello che ci accoglie al termine della mostra e nel quale possiamo infilare la nostra testa per farci uno scatto da condividere sui social.
Che sia questa l’immagine dell’angoscia nel XXI secolo?