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Sulla rotta delle carovane in sella a una moto
Tunisia: migliaia di chilometri, sabbia del deserto, e un chiodo nella ruota, quale occasione per fermarsi laddove il turista non sempre arriva
Guido Bosticco, testo e foto
Ore diciassette. Trenta gradi. Cinque chilometri dopo il casello direzione Nord. Autostrada A1, Tunisi-Sousse-Sfax. Un chiodo di quattro centimetri è perfettamente incastonato nel battistrada della ruota posteriore della motocicletta.
Alle spalle il sontuoso anfiteatro di El Jem, fra i più grandi e meglio conservati al mondo, a un’ora di viaggio la prospettiva della medina di Sousse, sul mare, davanti agli occhi, la Royal Enfield ferma sul ciglio della strada, carica di borse, di sabbia del deserto e a dire il vero anche di migliaia e migliaia di chilometri macinati negli anni in Eurasia e attorno al Mediterraneo. Ma ora inesorabilmente ferma per quel chiodo di quattro centimetri. È il momento che ogni motociclista teme, sebbene, intimamente, è anche il momento che ogni viaggiatore spera di vivere, perché sa che sarà l’occasione di incontrare persone, conoscere situazioni e luoghi strani, decisamente off the beaten tracks (fuori dai sentieri battuti).
La prima di queste persone, nel caso di specie, si chiama Abdellatif e sta perlustrando con il pick-up la sua piantagione di ulivi appena fuori dall’autostrada. Gli ulivi, in Tunisia, disegnano metà del Paese, punteggiando con regolarità maniacale le infinite pianure, alternati ai melograni, lungo vallate aride nell’estate bollente, che solo d’inverno ricevono acqua dai fiumi ora in secca. L’altra metà è deserto, bianco, abbacinante, affascinante.
Ma torniamo al grigio asfalto dell’autostrada. Abdellatif si ferma, sorride calmo, cerca di capire come può aiutare. Chiama suo figlio e suo fratello, che è meccanico, saranno qui in pochi minuti, portano anche due bottiglie di acqua gelata, che fanno sempre comodo se c’è da aspettare. I primi consulti prevedono ipotesi di vario tipo, fra cui sollevare la moto sopra il guardrail e caricarla sul pick-up per portarla in officina, subito scartate.
In Tunisia non hai mai la sensazione di essere solo, anzi ti senti osservato anche nel deserto, anche in uno sperduto paesino berbero apparentemente disabitato, anche in un torrido (ma meraviglioso) sito archeologico che è realmente disabitato: qualcuno ti osserva, sa che ci sei e che cosa fai, la qual cosa può essere inquietante, ma è soprattutto rassicurante. Ed è così che appaiono prima un furgone della sicurezza stradale e poi un carro attrezzi, che pattuglia costantemente l’autostrada. Un po’ di mercanteggiamento sul prezzo, come nel costume locale, e poi si carica la moto, direzione Sousse, da un gommista aperto ventiquattro ore. Si è fatto buio e il resto della serata è fra i copertoni e i cerchi, mentre Sabhi, il gommista, smonta e rimonta la camera d’aria e ripara il copertone. C’è tempo di riflettere, di riposarsi su un sedile di automobile posto nel cortile a uso dei clienti e di ripercorrere le tappe del viaggio che ci ha portati fin qui.
Arrivare in Tunisia dall’Europa via terra è oggi quasi impossibile, o incontri guerre o incontri dogane impervie, se non sbarrate. La via più comoda per arrivarci in moto (o in auto o in bici) è il traghetto dall’Italia. L’approdo a Tunisi all’alba dà subito l’idea del perché i Fenici vi abbiano posto la loro casa, Cartagine, mille anni prima dell’arrivo dei Romani, affacciata su una insenatura naturale, calma, protetta e aperta alle spalle sulla pianura fertile. Sono molte le città puniche e romane in Tunisia e, anche per i non esperti di archeologia, il contatto con quelle pietre crea un legame diretto con il pensiero antico che aveva progettato le strade, le case, i templi, i mosaici, le fognature, le mura, i teatri, le terme, i porti. Tutto sembra riprendere vita.
Che cosa è cambiato da allora? Le cose che muovono l’animo umano sembrano sempre le stesse: l’amore e l’odio, le vette dell’arte, la durezza del lavoro, la speranza della religione, le bassezze e le grandezze della politica, il piacere della conversazione, la cura delle tradizioni. Tutto era già lì. Forse dovremmo chiederci piuttosto quali città lasceremo noi ai nostri futuri visitatori.
Tunisi, quella viva di oggi, è sontuosa, unisce i grandi boulevard francesi e la medina araba, i palazzi monumentali bianchi e stuccati e i portoni di legno intarsiati delle moschee, i negozi dei brand internazionali e le spezie del souk. È una capitale araba e mediterranea insieme. Ma è solo l’inizio di un movimento di culture e stili, che si apprezza soprattutto scendendo verso il Sud della Tunisia, lungo strade ben tenute e villaggi serafici. Certo, la quantità di plastica abbandonata ai bordi delle strade o negli angoli periferici dei paesi ci ricorda che questo pianeta sta soffocando, che dobbiamo darci una mossa o saremo sovrastati dai nostri stessi scarti, che si trasformeranno in qualcosa di meno visibile, forse, ma altrettanto pericoloso.
A placare l’animo ci pensa però il Sahara. Il deserto è un passaggio mentale, oltre che fisico: arrivare al suo ingresso significa avere davanti uno spazio apparentemente infinito, apparentemente ostile, apparentemente omogeneo e poterlo assaggiare, anche solo da turisti, è un’emozione strana, un misto di inquietudine e di pace interiore. Tozeur, Kebili, Douz, Matmata, Tataouine sono nomi che evocano piazze dai portici bianchi e bollenti ai piedi di moschee sempre in movimento, carovane di commercianti (un tempo) e di turisti (oggi). Eppure, anche se sulle dune all’orizzonte appaiono gruppi di Suv che scarrozzano a tutta velocità famiglie e compagnie di amici con gli smartphone appiccicati ai finestrini, l’idea di essere su una linea di confine, sul bordo di un mondo più potente di noi, non viene meno.
La sabbia bianca invade l’asfalto e piega i guardrail, i dromedari dinoccolati camminano accanto alla strada con il loro sguardo lontano e la loro flemma vigile, il lago salato di Chott-el Jerid è asciutto e bianco da abbagliare, la strada che lo attraversa è dritta e solitaria, la luce imperversa su tutte le cose, a metà un cartello avvisa dell’assenza di segnale Gps: una preoccupazione che qualche anno fa non avremmo avuto. Tanto se un chiodo ti entra nella gomma della moto, sarà Abdellatif a darti una mano, non lo smartphone.