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Bibliografia


Il nido delle cose al fianco di una Tigre

Nel romanzo d’esordio di Wanda Luban, intitolato Gli artigli di Dio, l’autrice locarnese guida i lettori alla ricerca dell’origine, attingendo da un forte immaginario che ammicca al realismo magico
/ 28/10/2024
Manuela Mazzi

«Da poteva esprimere tre desideri. Chiese di conoscere l’origine della Coca-Cola, della libertà e della morte».

Se è un libro di formazione, lo è in modo diverso da come lo si intende di solito. Nel romanzo d’esordio della locarnese Wanda Luban, intitolato Gli artigli di Dio (Alterego Edizioni; in libreria dal 12 settembre), il viaggio della scoperta non passa attraverso la classica sperimentazione della vita di un adolescente che – superate le prove, commessi gli errori, violate le regole, conosciuto il sesso – si fa adulto. No. In queste pagine la protagonista affronta un viaggio di conoscenza attraverso la ricerca delle proprie origini, per ritrovare un punto fermo su cui poggiare i piedi dopo aver volteggiato tra le proprie storie famigliari, quasi in un andirivieni disorientante. Ma è anche un viaggio spirituale, che trascende l’origine individuale per farla risalire a quella primordiale. Un modo per trovare il proprio posto in un tempo e in un luogo. E non da ultimo anche una magica elaborazione di un lutto importante, come solo una bambina potrebbe essere in grado di affrontare.

Da, nome della ragazzina protagonista di quella che viene definita una fiaba per adulti, è miope, tuttavia si rifiuta di ammetterlo e di conseguenza non usa gli occhiali. Preferisce rimanere in quel mondo offuscato che le permette di vivere realtà immaginifiche che crea da sé. Un mondo la cui ambientazione terrena si muove nel nostro territorio, ma non solo.

A tenerla legata alla terra, alla concretezza, è Nonno Pietro, che con lei interagisce con complicità. Si capisce che dev’essere sempre stato lui il punto fermo di Da, anche perché la protagonista non può contare sulla sorella, e i compagni sono più eterei dei suoi amici immaginari, mentre i genitori non capiscono o non accettano l’«ostinazione» a rimanere nel proprio mondo. Il nonno si limita ad amarla, almeno fino al giorno in cui scompare. Morto il nonno, il mondo di Da si capovolge. A sostenerla in quella che potrebbe essere l’elaborazione del lutto, e a farle da guida nella ricerca delle origini per permetterle di ritrovare il suo posto in questa vita, si manifesta una tigre siberiana che la bambina chiamerà Surava, e la quale a sua volta la battezzerà, per l’appunto, Da. Un battesimo vero e proprio, la cui cerimonia è data dall’intera narrazione, un lungo (se il tempo scorresse normalmente) rituale battesimale: come dire che, se hai un nome, sai chi sei, e se sai chi sei, sai qual è il tuo posto.

«Ogni cosa ha un’origine, ma noi abbiamo perduto il filo…», per citare il signor Kahn, tra gli incontri più interessanti.

La tigre – a salti e rimbalzi – accompagnerà Da e noi lettori attraverso una sorta di olfatto astrale che le permette di conoscere la vita delle persone che incontra su su fino ai loro antenati, e di viaggiare nel tempo in una sorta di trance ipnotica venendo risucchiata dentro un albero. Si passerà dalla Siberia alla Francia, da un sarto a un macellaio, da un gatto alle farfalle. Ogni racconto porta con sé il tema della casa, dell’esilio, della perdita di identità, laddove l’identità viene intesa come luogo in cui stare. Allo stesso tempo viene tessuto con una sorta di cordone ombelicale un ampio manto, un tappeto privo di confini che avvolge non solo i territori, orizzontalmente, ma anche i cieli e le terre, dal passato al presente, così come unisce gli uomini e gli animali, i parenti e gli sconosciuti, ricreando un’unica traccia dell’origine delle origini, non solo della famiglia di Da, ma di tutti e tutto. Un’identità che fa risalire l’appartenenza di ogni singolo a un «mondo», a un’origine sola.

Così la Tigre siberiana, spirito guida di Da, arriverà alla conclusione del viaggio integrandosi completamente nella bambina, che – giunta alla fine della ricerca – diventa un «intero», matura, e si risolve accettando di far parte del mondo, e quindi di mettersi gli occhiali, ora che potrà affrontarlo con una nuova consapevolezza. Tra gli incontri, non mancano personaggi molto suggestivi, come l’uomodonna, la signora dei tappeti o lo sciamano del mausoleo.

Questo romanzo ci ha ricordato anche un’altra opera: Don Ponzio Capodoglio di Giorgio Pressburger (Marsilio editore). Perché entrambi adottano il registro della «fiaba», della narrazione simbolica, ed entrambi mettono in scena una ricerca, la ricerca dei loro protagonisti che hanno una storia diversa ma molto simile e legami con più territori del mondo, prevalentemente dell’est ma non solo; Pressburger cerca, parla d’identità, Luban, dell’origine. Pressburger si avvale della lingua come elemento d’indagine, Luban della «casa». Entrambi fanno risalire identità e origine a un’unica identità e a un’unica origine.

Tuttavia i loro immaginari sono del tutto diversi. Gli artigli di Dio è inevitabilmente zeppo di simbolismi, psicomagie, allegorie, spiritualità, ma anche di immagini più materiche, di luoghi e storie che si rifanno alla grande Storia, di riferimenti a tradizioni e culture e a popoli che si sono fatti viaggiatori, venendo da altrove e, nel nostro caso, stabilendosi in Svizzera. A dispetto di quanto si potrebbe temere, però – grazie una buona struttura – non disorientano i salti temporali e spaziali che la tigre fa, anche perché il romanzo introduce sin da subito lo sguardo con cui stiamo osservando il mondo di Da: come lei, siamo miopi e ci facciamo aiutare da una guida. Così che siamo pronti a ritrovarci in un luogo dai contorni non definiti, in locali dalle pareti offuscate, e sappiamo che avvicinandoci a una di queste potremo vedere una fotografia con la sua storia, e spostandoci dall’altro lato vedremo un altro quadro, senza poter mai avere una visuale d’insieme completamente a fuoco. Ma Surava è una guida fantastica e non ci lascia sbattere conto gli spigoli.

Ciononostante, Gli artigli di Dio richiede una lettura lenta. Che non è da confondersi con un libro lento. Anzi. Proprio perché le immagini si rincorrono a gran velocità con dei vuoti di spiegazione che generano anche ulteriori minuscoli salti nelle scene stesse, è fondamentale lasciare che le immagini abbiano il tempo di comporsi davanti ai nostri occhi. Una lettura trasversale di questo libro, per dire, non avrebbe alcun senso. Immagini, s’è detto ma anche profumi e odori. Perché questo è un libro che, come capita anche in natura, ha sostituto un senso, quello della realtà, con un altro, quello dell’olfatto.

A simboleggiare l’origine, come detto, qui è la casa, e nello specifico le case, contenitori di mondi magici e di storie, la terra natia, la foresta, il guscio, il nido, la tana, la betulla, il tappeto che fa da cuccia, il mausoleo, la perdita della casa, la soffitta e, una su tutte, la chiocciola, che più di così…

«Le parole sono intenzioni. Si stendono ad asciugare fuori. Estendono i loro arti in ogni direzione, arpionano pesci volanti, come quando la madre di Da le si sedette di fronte, dicendole: ascoltami».