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Democrazia, libertà e attivismo

Al Festival Internazionale del Teatro, che si è da poco concluso a Lugano, sono emersi temi anche delicati,messi però in scena con coerenza estetica
/ 21/10/2024
Giorgio Thoeni

Una rassegna di spettacoli, quando è costruita con un certo criterio, è sempre un piacevole luogo di incontri e scoperte. Ma soprattutto è palestra di riflessioni. Come la 33esima edizione del FIT, il Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea, che si è conclusa a Lugano negli spazi del LAC e che, anche questa volta, non ha deluso le aspettative richiamando un considerevole numero di spettatori a ogni appuntamento.

Si è trattato di un pubblico variegato, fra giovani e meno giovani, famiglie, addetti ai lavori e semplici curiosi, una massa critica che ha dato al FIT quella dimensione che una manifestazione di questo tipo si attende.

Certamente, uno degli aspetti che hanno accompagnato questa edizione è il cappello tematico che la direttrice artistica Paola Tripoli ha voluto assegnarle: Esercizi di libertà. Democrazia e diritti: tra semplificazione e nuovi ismi.

Assai aperto dunque nella sua totalità, ma quantomai attuale. E, nonostante l’abbandono di una dichiarata linea di genere voluta per le precedenti edizioni, poi abbandonata per limiti dettati dall’offerta, con gli spettacoli più aderenti al tema editoriale a farla da padrone quest’anno sono state tuttavia ancora e soprattutto le donne. Con la loro sensibilità, la loro forza, la determinazione e il coraggio, hanno proposto in diversi casi un teatro che ha affrontato temi anche delicati senza troppe circonvoluzioni ideologiche bensì con coerenza estetica, un pragmatismo che lasciava all’argomento la possibilità di essere smembrato e accolto nell’universo di un segno distintivo con la giusta dimensione di autorialità.

Un esercizio di libertà che spesso ha rivelato il suo posto nell’ambito di un attivismo necessario e coinvolgente attorno a soggetti tutt’altro che superficiali. Come ad esempio l’aborto, una realtà dapprima consentita e poi negata nella Polonia di oggi che l’artista Gosia Wdowik ha portato sulla scena con She was a friend of someone else. Un’arte civile, dunque, in cui lo spettacolo non è solamente un luogo dell’arte dove l’estetismo è padrone, ma si tramuta in un’esperienza che attraversa il pubblico, lo stimola, lo attanaglia, immergendolo in questioni cruciali.

Come nella libera riscrittura del mito di Medea a opera del Teatro dei Borgia di Barletta e interpretato da Elena Cotugno (premio Maschere del Teatro 2021 e due volte finalista Premio UBU), uno spettacolo di cui firma la drammaturgia con Fabrizio Sinisi. Ma è giusto chiamarlo spettacolo quando in realtà è una fotografia dalla cruda nitidezza di una tragedia che si consuma ovunque e ogni giorno? È il racconto di una donna rumena emigrata in Italia, prigioniera della schiavitù sessuale, costretta cioè a prostituirsi per sopravvivere, oppressa da un moderno Giasone, ma pronta al sacrificio dei propri figli per difendere la sua autodeterminazione e il diritto di esistere come donna. Una libertà negata e declinata, ma denunciata da un teatro sociale e grazie a una straordinaria attrice.

Tecnologia e arte sono invece a confronto in Seer con Tamara Gvozdenovic, artista indipendente, danzatrice e coreografa serba con base a Bruxelles. Sulla scena, la troviamo alle prese con una performance immersiva dove la metafora sportiva diventa gradualmente una gabbia di impulsi programmati a cui è quasi impossibile sottrarsi. Un’assaggio di IA forse da temere.

L’originale costruzione drammaturgica di Angela Demattè per L’estasi della lotta di Carlotta Viscovo punta il dito sul rapporto fra donne e arte in un intreccio biografico fra lei e la scultrice Camille Claudel. Da un lato la soffocante sudditanza maschilista di Rodin e seguaci, dall’altro l’esperienza vissuta di un’attrice in lotta per i diritti suoi e di un intero settore professionale duramente penalizzato da un frustrante opportunismo sindacale.

Un’altra artista di rilievo nel panorama del FIT che abbiamo imparato a conoscere anche nel corso di passate edizioni è Elena Boillat. Con il debutto della sua Partiturazero, già finalista di Premio e ospite di diverse residenze in Svizzera e in Ticino, la giovane performer ha mostrato un’intrigante personalità con una sequenza misuratissima creata attorno al respiro – materia primaria della sua ricerca – unita al suono di una voce che, come per un elogio della lentezza, costruisce con movimenti quasi impercettibili del corpo in una partitura musicale aperta a significati più profondi. Un’esperienza meditativa molto singolare, incisiva, di un’artista che si è fatta apprezzare per tenacia e libertà creativa.

Insomma, sono stati diversi gli stimoli lanciati dal FIT nel segno di una lotta culturale condivisa, soprattutto per la difesa della democrazia e della libertà. Un’urgenza testimoniata anche dal regista svizzero Milo Rau in un articolo pubblicato recentemente da «Le Monde» quando scrive: «Le nostre armi sono i nostri teatri, i nostri musei, le nostre feste di quartiere, le nostre università, le nostre feste culturali e popolari. Le nostre armi sono anche i nostri ricordi e le nostre speranze, in altre parole la società in tutta la sua diversità».