azione.ch
 


Dove e quando

FIT Festival dal 4 al 13 ottobre a Lugano. Prevendite biglietti: Biglietteria LAC.

Informazioni

www.fitfestival.ch


Un teatro militante a difesa dei diritti per la libertà

Al via il FIT Festival, la direttrice Paola Tripoli racconta lo spirito di questa edizione
/ 30/09/2024
Giorgio Thoeni

Con una serie di anteprime al Teatro Foce e al LAC di Lugano si è inaugurata la 33esima edizione del Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea (FIT). Con Paola Tripoli, sua direttrice artistica, affrontiamo una serie di spunti che il cartellone del festival vuole declinare attorno all’esercizio di libertà, della democrazia e dei diritti. Dopo il protagonismo femminile delle ultime edizioni, quest’anno il FIT si interroga anche sull’innovazione rispetto al canone teatrale in un contesto dove l’alternativa rappresentata dalla ricerca sembra marciare sul posto. Una problematica che viene tra l’altro sottolineata da diversi contributi raccolti nel quaderno Sguardi sul contemporaneo, il progetto editoriale che da anni accompagna la rassegna.

Siamo dunque arrivati al giro di boa?
Sì, potrebbe essere. Ormai sono quindici anni che modalità estetiche e contenutistiche hanno rincominciato a rinnovare quello che chiamiamo «canone». Com’era già successo negli anni 80, anche facendo dei piccoli disastri. Nel senso che molte delle cose che abbiamo visto negli anni 90 e nel 2000 sono il frutto di quella stagione che però non ha avuto quell’intelligenza di interrogarsi veramente anziché essere solo contro. Abbiamo poi incominciato ad assistere a spettacoli con artisti che su quella scia hanno però contribuito con nuove ricerche che hanno portato dei risultati e anche grandi interrogativi. Questo a livello europeo e non solo italiano nonostante la sua tradizione più vecchia dove il «contro» è soprattutto verso il teatro di regia. Forse il giro di boa potrebbe essere in atto in questo momento sulle differenze teatrali dettate dalla loro provenienza con una ricerca radicale che però non sappiamo dove porterà.

Renato Palazzi, autorevole critico e personalità di riferimento per il mondo teatrale scomparso nel 2021, nella prima pubblicazione dei Quaderni del FIT segnalava la distanza fra la corrente europea post-drammatica e la drammaturgia tradizionale e si chiedeva se avrebbero potuto convivere ancora a lungo: ha visto giusto?
La contrapposizione esiste ancora anche se oggi la definizione di post-drammatico è diversa da quella a cui si riferiva Palazzi. In realtà, secondo me, questa contrapposizione è molto pilotata da chi produce e non più dagli artisti. I meccanismi già utilizzati da un ventennio dalle arti figurative si sono spostati nelle arti performative per cui c’è un legame strettissimo fra produzione e mercato dove sembra quasi che l’artista sia al suo servizio e che non si può quasi più prescindere dal pensiero dell’artista e la commissione che gli viene data da chi produce. Ci sono dei vincoli, meno in Svizzera dove siamo in una sorta di isola felice. Basti pensare al taglio finanziario (del 15% su un budget di 187 milioni per le attività all’estero, ndr) per Pro Helvetia (PH) che era stato prospettato dal Consiglio nazionale poi rigettato dal Consiglio degli Stati. Un episodio che lascia ben sperare sul fatto che ci sono delle strutture non necessariamente «politiche» che gestiscono il denaro come PH che lasciano comunque grande libertà agli artisti.

Altrove questo non accade ad eccezione del Belgio o della Francia dove c’è una forte struttura sindacale a difesa dell’autonomia degli artisti. Forse termini come post-drammatico, tradizione, ricerca e innovazione sono etichette che sono rimaste tali. Noi che leggiamo ciò che accade sui palcoscenici abbiamo la necessità di nominare certe differenze, ma non so quanto poi siano portatrici di contenuti reali: l’etichetta corrisponde a ciò che sta accadendo o siamo noi che abbiamo necessità di nominarli per distinguerli e comunicare in qualche modo fra addetti ai lavori? Per lo spettatore normale non significano nulla.

Nell’editoriale che illustra i cardini di questa edizione del FIT si legge anche che il festival si interroga sui diritti, sul nostro posto nei confronti dello sviluppo tecnologico, sullo stato della terra, sul rapporto fra corpo e protesta… insomma, tanta roba.
Non è troppo, perché se il problema dei diritti viene declinato secondo quella frase scritta nell’editoriale dove invito a ricominciare a praticare esercizi di libertà, si può dare la parola agli artisti in maniera difforme. Il nucleo dei diritti sta certamente in uno degli spettacoli di Gosia Wdowik (She Was A Friend Of Someone Else). La giovane regista polacca nel suo spettacolo si interroga sul diritto acquisito dell’aborto in Polonia. Ma ce ne sono anche altri.

Noi abbiamo perso totalmente l’esercizio di praticare il diritto alla liberà, siamo abbastanza asserviti a quello che accade intorno a noi. Ormai nessuno si stupisce o si indigna più di nulla. Quindi il tornare ad esercitare quel diritto, alla libertà di dire, spiega questa curatela abbastanza espansa del programma. No, non è troppo. Anzi, dico che è una strada che dobbiamo percorrere in maniera seria per rendere attenti gli spettatori-cittadini su cose che da un momento all’altro da consentite diventano proibite. Così, come per altri spettacoli, è importante per Tamara Gvozdenvic (Seer) capire qual è il limite fra un corpo umano e un corpo cibernetico. O come per Marco Berrettini (El adaptor) è importante capire quando l’esasperazione dei diritti, come l’eccesso del politicamente corretto, metta in difficoltà i cittadini nel porsi rispetto a ciò che viene loro detto che si deve fare. 

Ancora una volta la risposta è no: dobbiamo continuare su questa linea ricominciando a imparare che dobbiamo essere liberi.

Il teatro contemporaneo come strumento di democrazia è una delle domande del FIT?
Nell’ambito del festival ci sarà una lectio magistralis di Bruno Milone, un filosofo che ha un passato anche di attivismo politico, proprio sul tema del futuro della democrazia: un argomento allargato in cui rientra anche il teatro contemporaneo. Ci sarà anche l’incontro con Gosia Wdowik e Arkadi Zaides, due artisti attivisti che con il loro lavoro tentano di apportare dei cambiamenti. Che poi questo accada non sono così ottimista, loro comunque lo fanno in maniera molto ferma e ne discuteremo. Quanto sia possibile cambiare non lo so ma è necessario che gli artisti si mettano in prima linea, che in qualche modo rivendichino anche il loro compito, cosa che secondo me si è smarrita.