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Sulla cima del Gran Zebrù, il Picco del re, avvolti dalla nebbia
Alpinismo: risalire il colosso delle Alpi – il secondo più alto del gruppo montuoso Ortles-Cevedale – in solitaria fino alla vetta, non è difficile quanto scendere lungo un versante ghiacciato senza corde e alla cieca
Jacek Pulawski, testo e foto
Oggi vi parlerò del «Picco del re», un fiero colosso delle Alpi situato nel gruppo montuoso Ortles-Cevedale. Re per bellezza più che per primato, se si considera il suo secondo posto in quanto altezza. La sua vetta (3857 mslm), di fatto, si situa tra quella di Ortles (3905 mslm) e quella di Cevedale (3769 mslm). Chiamata comunemente «Gran Zebrù», la sua cima si trova esattamente sul confine tra le regioni del Trentino-Alto Adige e la Lombardia.
Sono diverse le teorie legate all’origine del suo nome. Una di queste sembra ricondurre alla leggenda del sovrano feudatario, Johannes Zebrusius, vissuto nel XII secolo sul territorio della Gera d’Adda. Innamoratosi della figlia di un castellano del Lario, per aggiudicarsi i favori del padre ostile all’unione, partì per una crociata. Tornò quattro anni dopo, scoprendo che la sua amata Armelinda era stata data in sposa a un nobile milanese.
Costernato e depresso, Zebrusius decise di abbandonare tutto isolandosi in montagna, dove avrebbe vissuto da eremita per i seguenti trent’anni, scegliendo come dimora proprio la val Zebrù. Quando giunse il suo momento, si sdraiò su un tronco di legno e azionando un marchingegno di sua invenzione, si fece seppellire vivo da un grosso masso bianco. Secondo la leggenda, il suo spirito, purificato grazie al ritiro in preghiera, ma anche attraverso il dolore e anni di privazioni, si elevò fino a raggiungere la cima della montagna che divenne «il castello degli spiriti meritevoli», del quale regno, Zebrusius detiene tuttora il trono. Mi vien da ricordare che l’amore rende folli, per cui spero che il mio per le scalate in solitaria non mi renda un perfetto spregiudicato.
Del Gran Zebrù ho sentito raccontare più volte nelle mie numerose escursioni in montagna. Molti alpinisti ne parlano con entusiasmo descrivendola come una delle più belle delle Alpi, un montagnone per alpinisti esperti, sul quale non si scherza.
Arrivato nei pressi del rifugio Forni di Santa Caterina di Valfurva, posteggio la macchina e mi incammino verso il rifugio Pizzini-Frottola ubicato a una quota di 2700 mslm. Lì, ad aspettarmi, c’è Claudio Compagnoni, il gestore nonché la persona che si occupa della sistemazione di ogni ospite. Assieme al fratello Mauro hanno reso questa struttura un perfetto «campo base» per gli alpinisti. In verità si tratta di un lavoro durato ben tre generazioni. Infatti la gestione Compagnoni vige dal lontano 1958, iniziata dal nonno Filippo e ripresa dal papà Luigi e la mamma Lucia. Ora i due figli Claudio e Mauro continuano quello che di buono è stato fatto in passato. Oltre 60 anni di know-how di guide di montagna e maestri di scialpinismo per offrire il massimo dello standard di cui ogni «delinquente di montagna» necessiti per affrontare una vetta impegnativa.
Claudio è la prima persona a non mettere in discussione la mia scelta di scalare il Gran Zebrù in solitaria, decisione che da oltre un mese ha riscontrato delle forti critiche e disappunti nella stretta cerchia di amici scalatori e dei miei familiari. Si limita solo a fornirmi informazioni utili all’itinerario, mi parla delle scarse condizioni del manto nevoso che nei giorni scorsi ha impedito l’attacco alla vetta di diversi team di cordata. Ha anche il merito di presentarmi una guida di Bormio, Luca Salvadori, che mi rende attento sull’importanza di partire presto, affinché si possa evitare l’ammorbidirsi della neve con il sorgere del sole. Conosce bene la montagna e decide di partire dopo la colazione, verso le 3 del mattino, un’opzione che accetto senza esitazioni.
Dopo la cena esco a prendere una boccata d’aria fresca. Sorseggiando una grappa locale, mi godo il tramonto sull’intera vallata. Alla mia destra vedo il Cevedale circoscritto dalle nuvole; lì, davanti a me, il Gran Zebrù. Con la sua perfetta forma piramidale si presenta in tutta la sua bellezza e armonia. Quel susseguirsi di pareti, canaloni, rocce e ghiacciai ne fanno un’assoluta palestra per alpinisti. Dà segnali di vita, facendo precipitare una valanga alla destra del canalone che dovrò oltrepassare per accedere alla Spalla. La chiave di lettura precedentemente fornitami dalla guida Luca sembra essere stata impeccabile. Il picco delle temperature è arrivato al culmine e, con la notte, sta per ripristinarsi ai minimi indurendo così la neve. Per tutti noi, domani alle 3 di mattina, comincerà una lotta contro il tempo.
La sveglia per la colazione è tra le più silenziose e dolci che ho sperimentato in alta montagna. Non a causa delle campanelle tibetane, difficilmente udibili in Valfurva, ma solo perché ero già sveglio da un’ora. Dopo un breve periodo di sonno profondo il mio cervello ha avviato il motore. Mi domando se non sia l’anima ad assumere il controllo quando ne abbiamo il bisogno. Va detto che già alla mia partenza dal Ticino presentavo del nervosismo, una sorta di preoccupazione mai incontrata sinora.
Il Gran Zebrù non va preso alla leggera, e rappresenta il confine tra lo hiking (ndr.: escursione in giornata) di alta montagna e l’alpinismo. Per usare un gergo pugilistico, è un vero e proprio gatekeeper (ndr: pugile esperto ma poco conosciuto) che battezza ogni alpinista in erba. Alle 3.00 esco dal rifugio per scorgere tre fanalini a poche centinaia di metri più in avanti.
È la guida Luca con i suoi due clienti che s’incammina verso la base rocciosa della montagna. La grande distesa di neve sporca della sabbia del deserto trasportata dal vento è ben tracciata, e mi porta alla vedetta del Gran Zebrù.
Risalgo il ghiacciaio attraversando una zona crepacciata dirigendomi verso destra, per raggiungere la base del canalino. Si tratta di un ripido pendio di neve e sassi che mi condurrà alla Spalla (3462 m). Deve essere percorso prestando molta attenzione alle scariche di sassi e al pericolo di scivolate. Raggiungo il gruppo dei tre in cordata. Osservo attentamente il «modus operandi» della guida che conduce i suoi clienti. Fornisce delle raccomandazioni sulla tecnica di salita con i ramponi, sul ritmo dei passi, e sulla rilevanza di non fermarsi mai.
Giunti alla Spalla incontriamo Robert Antonioli, un vero gangster dello scialpinismo mondiale. Vincitore di quattro titoli mondiali, è il nipote di Michele Romanski, una storica guida di montagna che ho conosciuto nel bel rifugio di Adula CAS. Con quest’ultimo ci scambiamo qualche messaggio per telefono, ricordando di quanto la montagna possa unire le persone.
Dalla Spalla, un ripido pendio finale (45-55°) e alcune elementari roccette portano alla cresta di neve, che – percorsa verso sinistra – fa giungere alla grande croce della vetta (3851 mslm). In vetta trascorro poco più di 30 minuti. Il tempo necessario per attendere lo spostamento delle nuvole e scattare le migliori immagini. Incrocio due alpinisti provenienti dal versante opposto, uno dei quali mi chiede se sono solo, e poi mi consiglia di rimettermi sulla via del ritorno. Mi chiede di restare accorto e concentrato, in quanto solo ora sto per cominciare la mia vera scalata. Niente di più vero.
Sono distaccato dalle altre squadre, sprovvisto di corde per la discesa e la montagna è completamente avvolta dalla nebbia. I primi 300 m dalla cima sono i più impegnativi e ricoperti di ghiaccio. È un versante esposto e sul quale non bisogna aver fretta. Procedo con il petto rivolto a monte e, staccando un arto alla volta, mi assicuro che le piccozze e i ramponi siano bene infilati nella crosta ghiacciata. Superato il muro di ghiaccio avanzo normalmente. La consistenza della neve è molto ridotta. In alcuni punti sprofondo fino alla cintura.
Sotto i miei piedi il terreno comincia a cedere, innescando degli slittamenti di terreno che non sembrano aver fine. Quel suono di ghiaccio e neve che slittano a valle mi rammenta il temporale estivo, un fruscio intenso. È il GPS a guidarmi, la traccia lasciata da altri alpinisti è ormai un miscuglio di neve smossa. Arrivo al canalino, dove sono completamente al coperto da eventuali valanghe. Il resto è semplice tecnica e forza nelle gambe, prassi. Il Gran Zebrù è storia, un nuovo inizio.