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Bibliografia

Percival Everett, James, La nave di Teseo, Milano, 2024.


Il riscatto e la libertà di Jim il fuggiasco

Lo scrittore americano Percival Everett riscrive il capolavoro di Mark Twain da una nuova prospettiva
/ 23/09/2024
Elda Pianezzi

James di Percival Everett (classe 1956, scrittore e illustre professore di letteratura alla University of Southern California) è una storia legata a un’altra storia o, meglio ancora, è una storia che è già stata raccontata 140 anni fa da un altro autore, Mark Twain, ne Le avventure di Huckleberry Finn. A prima vista potrebbe dunque apparire ridondante e inutile, se non fosse per il fatto che Everett la racconta da un altro punto di vista. E si sa che, in letteratura, il punto di vista fa sempre la differenza. 

Nell’originale di Twain, è Huck a raccontare l’avventura vissuta con Jim, mentre naviga lungo il Mississippi in fuga dal padre alcolizzato e da una vita rispettabile che gli va stretta. Nella versione di Everett è invece Jim, schiavo afroamericano in fuga per salvare se stesso e la sua famiglia, a fare da narratore. In questo modo Everett usa una storia «vecchia» per raccontarne una nuova. Pur inserendo numerose variazioni nella trama, Everett mantiene infatti i capisaldi del libro di Twain, fra cui gli elementi satirici e di critica sociale, ma allo stesso tempo focalizza la sua attenzione su Jim in quanto schiavo, facendo luce sulle ingiustizie vissute dagli afroamericani in quel periodo.

Everett svolge questa operazione di rifocalizzazione attraverso alcuni interessanti meccanismi, primo fra tutti l’uso mirato del linguaggio: in James, Jim parla sì il tipico vernacolare nero, ma lo fa solo quando si trova in presenza dei bianchi, per mostrarsi inferiore e sottomesso e conformarsi allo stereotipo. 

Gli afroamericani fra di loro comunicano infatti in inglese standard, la lingua della ragione e dell’istruzione. Jim sa leggere, per prudenza tiene però nascosta questa sua capacità per buona parte della narrazione perfino a Huck, negando le frasi corrette che di tanto in tanto gli sfuggono. Nella traduzione italiana questo effetto di straniamento è presente, ma purtroppo in modo meno marcato rispetto all’originale. Non esistendo una versione italiana del dialetto degli afroamericani, il traduttore usa un italiano informale arricchito di qualche lacuna grammaticale, come nelle seguenti frasi: «Perché me sono schiavo» oppure «I bianchi credono a un sacco di robe di cui non sono mica tanto sicuro. Sono la gente più stupidiziosa al mondo».

Everett usa il linguaggio come maschera e al contempo come segno distintivo di appartenenza: gli afroamericani sanno parlare il vernacolare, i bianchi no. Spesso e volentieri anche l’inglese dei bianchi è però infarcito di errori grossolani, gli stessi attribuiti ai neri: alla fine i due gruppi sociali sono meno diversi di quel che appare a prima vista. Una tesi rinforzata nella parte del libro dedicata all’incontro con i menestrelli bianchi, che cantano canzoni da afromericani truccati da afroamericani per intrattenere un pubblico di bianchi. Con le loro imitazioni della cultura nera, i bianchi, anche se non lo vogliono ammettere, in realtà ammirano molteplici caratteristiche degli afroamericani.

L’inserimento dei menestrelli nella narrazione permette inoltre a Everett di portare a un livello superiore lo stravolgimento dei cliché già rivelati attraverso il linguaggio. Vediamo dunque Jim che, una volta comprato dai menestrelli, diventa un nero che finge di essere un bianco che finge di essere un nero. Questo ingarbugliato incastro di identità accavallate punta a svelare l’ingranaggio perverso che sta alla base della discriminazione razziale: se un nero può fingere di essere un bianco travestito da nero, se chiunque può trasformarsi in chiunque altro, allora le differenze razziali in realtà non esistono. Ciò è esplicato ancora meglio quando Jim scopre che uno dei menestrelli bianchi è in realtà un nero dalla pelle talmente chiara da apparire bianco. Qui Everett si chiede quanto scura la pelle debba essere perché venga considerata «nera», andando a creare un’interessante dicotomia tra l’essere e l’apparire e mostrandoci come in una società schiavista sia più importante apparire che essere. Un messaggio tutt’ora valido.

Un altro tema affrontato in James è quello degli «schiavi che amano essere schiavi», esemplificati in due personaggi che si identificano così tanto nel loro ruolo, da arrivare ad amare la loro condizione disumana. E così succede che il battello a vapore su cui a un certo punto Jim e Huck navigano scoppi proprio a causa dell’incauta venerazione mostrata da uno schiavo addetto alle caldaie verso un padrone mai visto.

Pregiudizi, ignoranza, disumanizzazione degli schiavi sono tematiche che Everett inserisce con leggerezza nella sua opera, ottenendo una narrazione piacevole e scorrevole. E poiché Everett si prende grandi libertà a livello della trama, James si legge non come un semplice complemento di Le avventure di Huckleberry Finn, ma come un’opera indipendente che fa venire voglia di andare a (ri)scoprire Twain (nella foto grande i protagonisti del film tedesco Die Abenteuer des Huck Finn, 2012).

Riletto a distanza di anni, Le avventure di Huckleberry Finn mantiene il suo carattere fresco e brillante, con uno sguardo divertito sul mondo e un perdersi e un divagare di situazione in situazione che in Everett manca. Se Twain procede lento come il Mississippi fatto di mille isole, banchi di sabbia e rive frastagliate, Everett fila via dritto incanalato verso l’obiettivo. È come se Everett non avesse tempo da perdere e volesse fare un elenco delle maggiori atrocità che la cultura schiavista ha creato lasciando importanti strascichi nella moderna cultura statunitense, ancora permeata da disuguaglianza, violenza e razzismo.

Sono pertanto numerosissime le pubblicazioni dedicate allo schiavismo e alla segregazione. Chi fosse interessato ad approfondire potrebbe iniziare da due romanzi classici come Ragazzo negro di Richard Wright del 1947 (che spiega cosa voglia dire nascere e crescere «neri») o La macchia umana di Philip Roth del 2000 (che parla di «neri» all’apparenza «bianchi»), continuando con due opere più recenti come L’aiuto di Kathryn Stockett (che dipinge la condizione delle colf nere negli anni Sessanta) o La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead del 2016 (che parla delle fughe degli schiavi verso la libertà).

E Twain, cosa pensava degli schiavi? Per capirlo basta osservare il «suo» Jim, personaggio a tutto tondo, superstizioso e ingenuo, sì, ma anche abile, eloquente, arguto e premuroso; se Huck in un paio di scene è dubbioso e sente che dovrebbe «restituirlo  alla sua proprietaria, non lo fa mai perché gli vuole bene e lo considera un essere umano, non una merce. L’atteggiamento di Twain rimane però ambiguo: se da un lato umanizza Jim, dall’altro lo coinvolge in situazioni stereotipate. A differenza di quanto ignorato della cancel culture, bisogna tuttavia considerare l’epoca e i luoghi in cui Twain visse; e comunque quasi un secolo e mezzo dopo (nella foto la copertina della prima edizione del 10 dicembre del 1884), il cammino verso l’abbattimento delle discriminazioni rimane lungo e tortuoso.