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Bibliografia

Ingvild Hedemann Rishøi, La porta delle stelle, Iperborea, Milano, 2024.


La porta delle stelle e un pub di nome Stargate

Incontro a Oslo con la scrittrice norvegese Ingvild Hedemann Rishøi che racconta il suo romanzo uscito per Iperborea
/ 16/09/2024
Angelo Ferracuti

Pubblicato in Norvegia con il titolo Stargate, il nome di un pub frequentato da emarginati e alcolisti che si trova all’uscita della metropolitana di Grønland, il quartiere multietnico di Oslo, La porta delle stelle (Iperborea, 2024) racconta la storia di un padre vedovo, disoccupato e spesso in preda alle bevande alcoliche, che vive con le figlie adolescenti nel quartiere di Tøyen. Ha un rapporto speciale con loro, che apostrofa con una lingua favolosa, ma in certi periodi le forti bevute al pub non gli permettono di lavorare e la famiglia è spesso ridotta alla fame.

Durante il periodo che precede il Natale, Ronja, la figlia di dieci anni alla quale Ingvild Rishøi dà la voce narrante, riesce a trovargli un lavoro come venditore di alberi grazie al bidello della scuola, ma quando lui mollerà il colpo lei e la sorella Melissa si metteranno a venderli al suo posto nell’intento di pagare le bollette e sbarcare il lunario. Ma anche nella speranza di poter avere anche loro un albero da addobbare e passare le vacanze in una baita tra i boschi. Lo sguardo di Ronja è insieme tragico e sognante, e la bravura di Ingvild Rishøi è quella di creare un romanzo universale e senza tempo, ormai considerato un classico contemporaneo.

Ho incontrato la scrittrice norvegese (nella foto) nella sua casa che si trova nel quartiere di Tonsehagen, a un’ora di distanza dal centro della capitale norvegese.

Come è nata questa storia?
Prima di iniziare questo romanzo ho passato un periodo di otto anni nel quale non ho pubblicato nulla. Stavo scrivendo un libro molto autobiografico, un testo vissuto in prima persona su cosa vuol dire vivere vicino a chi abusa di alcol, ma non ero soddisfatta del mio lavoro, così una volta terminato ho deciso di non darlo alle stampe. Era un libro pieno di disperazione. Quando invece ho iniziato a lavorare a La porta delle stelle dalle ceneri del mio precedente romanzo, l’ho trasformato in qualcosa di molto diverso e ha prevalso l’aspetto dell’immaginazione, della finzione.

Ma come comincia la scrittura?
È stata una voce che è arrivata nella mia testa, non mi fraintenda, so che sono io che sto scrivendo, non perdi la percezione di te mentre lo fai, ma è stato un modo per tornare alla fanciullezza, a quei momenti in cui giochi a interpretare due personaggi diversi. In questo modo ho creato un mondo parallelo, di finzione. Quando questa voce arriva, scrivo, ma in forma disordinata, libera. Da qui scaturisce il materiale grezzo che poi userò riscrivendo, riordinando, controllando tutti i pezzi che poi assemblo scartando le parti che non mi servono. I miei libri nascono così.

È vero che quando ha finito di scrivere distende tutti i fogli sul pavimento?
Normalmente si fa sullo schermo di un computer, mentre io quando sto scrivendo ho un bisogno concreto di avere un rapporto visuale con le pagine, di vederle tutte insieme, le metto fisicamente sopra questo pavimento, prima però mi assicuro che le finestre siano ben chiuse in modo tale che il vento non le faccia volare. Si tratta di un lavoro, non dell’ispirazione celeste!

Ha scritto che le piace il buio, la neve e il freddo, preferisce ambientazioni invernali per i suoi libri, e mentre scriveva, per ispirarsi, ascoltava di continuo i canti natalizi.
Sì, nonostante fosse maggio, che è il mese più bello in Norvegia, chiudevo le finestre, oscuravo tutto, accendevo delle candele e mentre scrivevo ascoltavo queste canzoni per entrare nell’atmosfera natalizia. Ma senza aver scritto quel romanzo che poi non è stato pubblicato non sarei stata capace di poter scrivere questo, perché sono un’artigiana della letteratura, non riesco a scrivere senza mantenere una distanza, voglio manipolare i sentimenti dei lettori, non i miei.

Il titolo norvegese Stargate nasce da un pub di Gronland che conosco dove una pinta di birra è la più economica di tutta la Norvegia. Come mai questo titolo?
La copertina del libro originale norvegese rappresenta un albero di Natale con sopra una stella. Ho associato questo posto che esiste davvero e ha proprio questo nome, Stargate e i protagonisti della storia abitano a Tøyen, che non è molto distante da lì. Per me è stato come un regalo che la realtà mi ha fatto.

Il suo libro è stato paragonato a La piccola fiammiferaia di Andersen, sta dentro una costellazione letteraria di racconti di Natale, quelli di Dickens, di Stevenson. Quando scriveva era cosciente di lavorare dentro quella tradizione innovandola in senso contemporaneo?
È la storia di una ragazza che lavora vendendo alberi di Natale, una cosa che ho fatto veramente durante il periodo della pandemia. Ero disoccupata e per tutto il mese di dicembre ho venduto alberi e ghirlande, mi piacciono molto i lavori fisici. Quindi una storia così doveva per forza di cose diventare una novella natalizia. Ma mentre scrivevo ho capito necessariamente che dovevo anche relazionarmi con una tradizione, che per me inizia con la Bibbia, ma soprattutto con i libri della scrittrice svedese Astrid Lindgren, la leggendaria autrice di Pippi calzelunghe, dentro un filone di letteratura natalizia.

Nel libro si mescolano due elementi decisivi, il duro realismo sociale e la magia del Natale, la realtà più spietata e il sogno. Le protagoniste del libro sono due sorelle, Melissa di sedici anni e Ronja di dieci, l’io narrante, che prendono in mano il proprio destino. Perché ha deciso di scegliere questo punto di vista?
Sono racconti che hanno dentro di sé qualcosa di magico, una corda che non avevo mai usato nella mia letteratura e che volevo esplorare. Possiamo definirlo realismo magico. La vita è fatta di realtà, spesso durissima, ma noi abbiamo bisogno di sogni, di fantasie, e questo mondo fantastico possiamo crearlo anche attraverso l’alcol, bevendo, creando una realtà parallela. Il personaggio del padre nel libro ha tutti e due gli aspetti, quello della sofferenza ma anche del sogno. Melissa e Ronja hanno imparato a comportarsi così, a vedere così il mondo, incoraggiate dal padre, è lui che regala alle figlie questo dono di poter cambiare con l’immaginazione la realtà, di poter vivere in un sogno.

Racconta una condizione umana dolorosa, socialmente quella di una periferia emarginata e impoverita, qualcosa che uno non si aspetterebbe a Oslo, in Norvegia, uno dei Paesi con il welfare migliore del mondo.
La realtà norvegese è molto diversa da quella che la gente può immaginare, le differenze tra le classi sociali, tra ricchi e poveri, sono in forte aumento, e questo incide soprattutto sulla vita dei bambini di famiglie giovani molto numerose. Il quartiere di Tøyen, dove è ambientato il mio romanzo, ha il numero più alto di bambini poveri di tutta la Norvegia. Ma nel libro la condizione di povertà è creata dal fatto che il padre è alcolizzato, incapace anche di servirsi delle protezioni sociali che potrebbero salvarlo. Anche se queste due ragazzine potevano essere figlie di persone ricche con gli stessi problemi di droga, alcol e affettività, è qualcosa che purtroppo accade in tutte le fasce sociali.