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New York City, la babele delle lingue
Come si compone il paesaggio linguistico della capitale del mondo, tra codici dominanti e lingue emergenti
Stefano Vassere
Mettiamo che vi troviate a girare in lungo e in largo per New York City in compagnia della vostra figlia più giovane – diciamo sui diciott’anni – e che quest’ultima sia di recente competente un po’ aristocratica della lingua locale. Dei cui particolari lessicali e formali si è dotata abbondantemente in quattro e quattr’otto, dando seguito a entusiasmi musicali e social e lasciando in un’indefinita salamoia codici più prossimi, tra cui un paio di lingue nazionali. Confinati come siete a portfolio linguistici più tradizionali, le proporrete un gioco: in occasione di incombenze turistiche banali come l’acquisto di una bibita o la richiesta di indicazioni stradali, la ragazza darà fiero fiato a sue dimestichezze della lingua del territorio mentre il genitore, forte di un approfondimento di tipo sociolinguistico, concretizzerà qualche sua antica conoscenza dello spagnolo.
Superate iniziali resistenze dovute al fatto che sulle prime la piccola anglofona decide di ridacchiare del carattere superfluo e inutile dell’esercizio, la gara pare subito molto serrata, soprattutto in certi quartieri: le due lingue si rivelano altrettanto comprensibili dagli interlocutori e lo spagnolo sembra giocarsela alla grande senza particolari crisi. L’inusuale gara ha il conforto dei dati. Secondo lo United States Census Bureau, nel 2022 nell’intera città, che conta quasi otto milioni di abitanti, una persona su due maggiore di cinque anni parlava in casa una lingua diversa dall’inglese, in un caso su quattro lo spagnolo.
Qualche anno prima, nel 2018, i dati per quartiere dicono che se da un lato la situazione dell’inglese è maggioritaria in alcuni distretti (parlava inglese a casa il 60% della popolazione di Manhattan, il 66% di quella di Staten Island e il 56% di quella di Brooklyn), nei quartieri del Bronx e del Queens la lingua dell’impero stava sotto il 50%; nel Bronx in particolare, che conta 1,3 milioni di abitanti, quasi il 60% della popolazione parlava a casa una lingua diversa dall’inglese e un 81% di questi, praticamente la metà della popolazione, parlava spagnolo. In concreto, se andate in qualsiasi posto del distretto, sia esso un bar, un chiosco, un negozio di vestiti o altro e parlate spagnolo, avete almeno una probabilità su due di essere capiti.
Il dato sullo spagnolo al Bronx è solo un segnale di quanto New York, cioè la residenza prima dell’imperialismo linguistico mondiale, non vada esente da ampie concessioni a lingue diverse dalla propria, in qualche caso lingue non certo di seconda fila. Ciò è prova di un coraggioso dinamismo linguistico, in quella che il presidente emerito dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, parlando del linguista svizzero-americano Hermann Haller, non ha esitato a definire «la capitale del mondo». I dati statistici più aggiornati parlano chiaro: l’inglese da una parte e il gruppo delle altre lingue dall’altra si spartiscono a metà il repertorio della comunicazione in famiglia e dopo lo spagnolo (50% della categoria «altre lingue»), vengono il cinese (13%), il russo (5%), il bengalese (3%), yiddish, francese, haitiano, yoruba nigeriano, arabo e finalmente italiano, attestato attorno all’1,5% e con una punta del 5,5% a Staten Island. Tanta quantità statistica, dunque, ma anche qualità e costume linguistico.
L’appena citato Hermann Haller, che qui vive e lavora da molti decenni ormai, osserva che l’attuale realtà cittadina è molto attenta al verde pubblico dopo l’attiva reggenza del sindaco Bloomberg (2002-2013); i parchi, anche quelli piccoli, sono stati in genere rivitalizzati talora con formule di collaborazione con i residenti nelle vicinanze. È molto frequente che queste strutture siano dotate di cartelli che ne spiegano la storia e le modalità di accesso, ribadendo qualche semplice regola. E riesce comunque a confortare che questi cartelli tengano conto del paesaggio linguistico circostante, con testi bilingui o trilingui; come nel caso del quartiere di Williamsburg Brooklyn, dove si usa scrivere in inglese, in cinese e in yiddish o ancora nel Bronx, con lo spagnolo ad accompagnare puntualmente l’inglese.
La situazione appare improntata a un discreto dinamismo, anche se certo andrebbero presi in considerazione altri dati: le fasce d’età, la conoscenza dell’inglese nelle diverse comunità che parlano un’altra lingua e le abitudini linguistiche nella sfera pubblica, per strada e al lavoro. Per esempio, la comunità di chi parla spagnolo a casa rappresenta circa un quinto dei parlanti totali della città e circa la metà di essa dichiara di parlare inglese molto bene, una quota che tende a crescere con il crescere dell’età; un po’ diverso è il caso della categoria «Asian and Pacific Island languages», cui appartiene anche il cinese, dove solo quattro cittadini su dieci parlano inglese molto bene e parla inglese «non molto bene» attorno alla metà della popolazione in età da lavoro tra i 18 e i 64 anni. Una delle lingue spesso coinvolte in pratiche culturali curiose è l’italiano. Le percentuali sono, come visto, estremamente basse, ma è soprattutto la tendenza a essere catastrofica: a New York City, dall’inizio del millennio l’italiano è la lingua che in percentuale ha perso più parlanti a casa, di fatto quasi la metà: erano circa un milione nel 2000, sono poco più di mezzo milione vent’anni dopo (dati del «Center for Immigration Studies»). In questo contesto, il colore della nostra lingua pare comunque continuare a essere presente, seppure in un suo vestito più culturale che comunicativo.
Ancora Haller nota che non sembra calare, anzi, la storica presenza massiccia di ristorazione italiana in città: nomi di pizzerie e di piatti nei menu continuano a essere in italiano, un italiano autentico o uno pseudo-italiano del tipo stracchatella, panchetta, lambadina di vitello, scallapini. Lui li ha raccolti tutti, sistematicamente, in lavori solidi e divertenti. Sono piatti che assomigliano agli omologhi italiani, ma hanno una denominazione italiana dal valore più che altro simbolico: non manca praticamente mai una glossa in inglese con la descrizione del piatto e dei cibi. Una coloritura, un profumo di italiano, in un contesto che rimane linguisticamente inglese, a configurare quella che Haller chiama, con indovinata etichetta, l’«italianità senza lingua».
Insomma, la «capitale del mondo» è al centro di dinamiche linguistiche e culturali decisamente liquide: si è tentati di pensare che risulti agevole, e anche un po’ snob, concedere questi numeri e questi spazi ad altre lingue. «Facile, quando sei la lingua del globo a casa tua!». Questo giocare con lingue altrettanto planetarie, almeno nei numeri e nell’estensione dei propri domini geografici come spagnolo o cinese, merita però almeno l’attenzione del turista. Incuriosito dai fenomeni comunicativi, e venendo da una comunità storica ma minoritaria come quella degli italofoni, egli può permettersi di stare un po’ alla finestra, insistendo con lo spagnolo dove si compera la pizza per strada o al momento della richiesta della password WiFi nei bar, suprema cerimonia di qualsiasi sosta con adolescente in un luogo pubblico al coperto.
Eppure, ci illudiamo per un attimo che il negozio del Bronx dove la ragazza è intenta a rimirarsi dentro pantaloni strani («Vuoi mettere, i jeans comprati nel Bronx!», sostiene Gaia), abbia un’insegna con il nome del luogo, Ban Bini, che ci sembra una raffinata allusione al Belpaese e alla sua lingua, perdente sui numeri, ma forse ancora a galla su simbologie e giochi di parole. Un negozio di vestiti per giovani intestato ai bambini in quel modo così bislacco chiede però un percorso di riferimenti semantici e culturali decisamente tortuoso, oltre che tanta e tanta fiducia nel potere culturale della nostra lingua; e l’interpretazione crolla subito di fronte al riferimento a un saluto di benvenuto nel papiamento di Aruba, l’Isola Felice. Tant’è: affrettiamoci alla cassa con i jeans e vediamo che lingua la spunta nel chiedere il conto.