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173mila metri cubi di costruzioni diroccate

Urbex: una passeggiata a Napoli nella ex fabbrica del signor Corradini, «lo svizzero», che alla fine dell’Ottocento si trasferì sulla costa in Campania
/ 09/09/2024
Mario Messina

«Ecco, quello che senti è il suono tipico dell’Urbex». Anna Ciriello ha appena calpestato pezzi di vetro in frantumi. «Il rumore di vetro, plastica o altro materiale che si rompe sotto i piedi è una costante nelle nostre spedizioni».

Anna è una appassionata di Urbex (crasi dei termini inglesi urban ed exploration) cioè di «esplorazione urbana» in luoghi abbandonati. Insieme a lei, a Giovanni Rossi Filangieri (fondatori del gruppo facebook Urbex Campania e del blog Essere altrove) e a Marco Ferruzzi ci troviamo a San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli, all’interno del sito industriale abbandonato conosciuto come «ex-Corradini», dal nome dell’industriale svizzero che lo fondò.

A guardare oggi i ruderi di quella fabbrica – coi tetti scoperchiati, le pietre crollate in qualche punto e stanze enormi a volte vuote e a volte riempite di rifiuti – si stenta a credere che fino a pochi decenni or sono si trattava di uno degli opifici siderurgici più importanti del Meridione d’Italia.

Marco Ferruzzi è nato e cresciuto da queste parti. «La prima volta che entrai in questi ruderi ero ragazzino. Poi ci sono venuto altre decine di volte. Ogni volta la trovo diversa in qualche aspetto. Ogni volta trovo qualcosa di nuovo». E non deve essere difficile se si considera che stiamo parlando di un sito industriale che, al momento della sua dismissione, contava 53 unità immobiliari per un totale di 173mila metri cubi di costruzioni.

Entrare nella «ex-Corradini» non è semplice. L’ingresso ufficiale è sbarrato ma quella che fu una delle aziende più importanti di Napoli nasce a pochissimi passi dal mare quindi per arrivarci basta (si fa per dire) camminare su un muro che costeggia il mare per qualche centinaio di metri e giungere lì dove si erge ancora oggi la canna fumaria.

A differenza di Marco, per Anna e Giovanni è la prima volta in questo luogo. «Sono tante le cose che adoro dell’urbex – dice Anna – ma ciò che amo di più è fermarmi a riflettere sulle vite legate a questi luoghi ormai abbandonati. Sulle persone che li hanno abitati. Sui tanti operai, ad esempio, che ogni giorno venivano qui a lavorare».

Erano almeno 500 gli operai e le operaie che ogni mattina varcavano la porta della Corradini, almeno nel suo momento di massima espansione, negli anni immediatamente successivi alla fondazione da parte di Giacomo Corradini. Nato a Sent nella Bassa Engadina nel 1844, Giacomo era figlio di Chasper Conradin (il cognome fu italianizzato solo successivamente).

Dopo qualche anno di permanenza a Livorno, Giacomo decise di trasferirsi a Napoli insieme alla moglie, l’argoviese Alice Bally. Qui incontrò Jon Mathieau che dai Grigioni si era spostato all’ombra del Vesuvio anni prima. Grazie a questa conoscenza, nel 1881 decise di acquistare i locali di un’azienda fondata circa dieci anni prima da un gruppo di francesi. Fu lì – sulla costa di San Giovanni a Teduccio – che nacque la Società Metallurgica Giacomo Corradini.

I grandi spazi che un tempo ospitavano centinaia di operai e decine di macchine all’avanguardia, ora sono riempiti di rifiuti portati qui prima che le porte d’ingresso fossero sbarrate. Marco Ferruzzi ci indica una carcassa di lamiere. È ciò che resta di un’automobile. «Chissà come ce l’hanno portata», si chiede Giovanni. «E chissà che storia c’è dietro», gli fa eco Anna. Le storie degli uomini e delle donne restano al centro di questa esplorazione urbana.

Oggi è difficile riuscire a trovare in quel cumulo di pietre e cemento un elemento che ci riporti alle vite di chi quei luoghi li ha vissuti. Ma dai documenti dell’archivio aziendale sappiamo che le cose alla «Giacomo Corradini» andarono bene tanto che l’azienda negli anni successivi si ampliò inglobando strutture di altre industrie. Giacomo e la sua famiglia vivevano qui, in una villetta che l’engadinese si fece costruire affianco all’opificio.

Qui nacquero i figli: Andrea, classe 1875, studiò ingegneria al Politecnico Federale di Zurigo; Margherita, di 5 anni più piccola, scelse la strada artistica divenendo una pittrice. Nel 1899 Andrea Corradini entrerà a far parte della società che poco dopo fu chiamato a dirigere.

Il padre, ormai anziano, decise di ritirarsi in Engadina dove morì nel 1920. Quelli successivi furono anni turbolenti. Per quanto perfettamente integrati nel tessuto sociale e culturale della città, i Corradini restavano «gli svizzeri» e nell’Italia fascista lo straniero non era visto di buon occhio. Eppure la Corradini fece la sua parte negli anni della Grande Guerra quando la fabbrica fu convertita per fini bellici per poi ritrovare successivamente la sua vocazione naturale.

A decretare la fine dell’impianto fu la Seconda guerra mondiale. Quasi totalmente distrutta dai bombardamenti, l’azienda cessò definitivamente l’attività nel 1949. Da allora il fabbricato che copre quasi un chilometro della costa campana fu prima acquistato dal Consorzio Agrario Italiano e poi, nel 1999, fu acquisito dal comune di Napoli.

«Con l’acquisizione pubblica, il ministero della cultura italiano decise di porre un vincolo sull’opificio a cui fu riconosciuto un interesse storico e culturale in quanto sito di archeologia industriale di rilievo», spiega Marco Ferruzzi. «Questo vincolo avrebbe dovuto imporre al Comune di Napoli la tutela, la conservazione e la cura del patrimonio per evitare che si arrivasse alle condizioni in cui versa oggi», spiega ancora.

Oggi esiste un progetto di riqualificazione dell’area e l’amministrazione comunale sta cercando i fondi necessari. «In questo luogo si potrebbero fare centinaia di cose ma speriamo che si preservi il più possibile quello che è rimasto in piedi», riflette ad alta voce Giovanni.

Il sole sta per calare, è il momento di andar via. Intanto Anna e Giovanni si guardano intorno ancora una volta. Forse stanno immaginando gli operai napoletani al lavoro nella fonderia, o il signor Corradini, «lo svizzero», che passeggia nella strada che costeggia le costruzioni. Vite legate a una fabbrica che oggi è fatta solo di pietre, tetti crollati, immondizia e ricordi.