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Dove e quando
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano, fino al 23 settembre.
Orari: lu-do 10.00-19.00; chiuso il martedì.
La fulminea traiettoria artistica di Pino Pascali
Alla Fondazione Prada il curatore inglese Mark Godfrey celebra l’artista italiano
Elio Schenini
Nel variegato e sempre attualissimo programma espositivo della Fondazione fondata e diretta da Miuccia Prada, una delle poche realtà dedicate all’arte contemporanea assieme all’Hangar Bicocca che permette a Milano di tenere il passo delle principali città europee (e questo la dice lunga sulla perdurante fragilità delle istituzioni culturali in Italia), le presenze italiane sono sempre state centellinate con estrema parsimonia.
Anche dopo la morte nel 2020 di Germano Celant, che fin dagli inizi, alla metà degli anni Novanta, ne aveva assunto la guida, la Fondazione ha continuato sulla linea internazionalista voluta dalla sua fondatrice per evitare di incagliarla nelle secche del provincialismo e nelle logiche da strapaese che – lo dimostrano anche le recenti vicende legate alla gestione della cultura da parte del governo Meloni – continuamente riaffiorano nella vicina Penisola come desolanti manifestazioni d’inadeguatezza rispetto al grande passato che l’Italia ha alle spalle.
Le sporadiche presenze di artisti italiani nel programma della Fondazione si iscrivono quasi tutte – a parte quelle plurime di Francesco Vezzoli, artista prediletto di Miuccia Prada – in quella che è stata l’ultima grande stagione dell’arte italiana: quella compresa tra i primi anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta. Una stagione in cui l’Italia è riuscita a inserirsi, con originalità di accenti e qualità di proposte, nel vivo del dibattito internazionale, non solo grazie ad alcuni artisti di grande valore ma anche a una nutrita schiera di critici attenti e informati su quanto accadeva nel resto del mondo, quali Alberto Boatto, Germano Celant, Carla Lonzi, Maurizio Calvesi, Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva e Lea Vergine.
Tra gli artisti di quel periodo che hanno goduto e continuano a godere di un ampio riconoscimento al di fuori dei confini italiani, figura – a dispetto dell’esiguità della sua produzione, quantomeno per le logiche del mercato – anche Pino Pascali, artista nato a Bari nel 1935 e prematuramente scomparso nel 1968. Il 30 agosto di quell’anno, proprio nel momento in cui la sua opera cominciava ad attrarre l’attenzione della critica internazionale anche per la sua presenza alla Biennale di Venezia, Pascali si schiantò infatti con la sua moto contro un’automobile che stava compiendo un’inversione a U nel sottopassaggio di Corso d’Italia a Roma. L’11 settembre, dopo dodici giorni di coma durante i quali amici e conoscenti accorsero al suo capezzale pronti a donare il proprio sangue per le continue trasfusioni che si rendevano necessarie, Pascali moriva a soli 33 anni, interrompendo bruscamente una carriera che nel giro di pochi anni l’aveva portato a figurare tra i principali protagonisti del rinnovamento dell’arte italiana.
Per raccontare questa folgorante anche se fulminea traiettoria artistica, tutta racchiusa nei quattro anni che vanno dalla prima personale del 1965 al Gran premio internazionale per la scultura assegnatogli postumo alla già ricordata Biennale del 1968, la Fondazione Prada ha chiamato il curatore inglese Mark Godfrey, il quale ha immaginato un percorso espositivo diviso in quattro sezioni che si presentano come altrettante mostre distinte.
Nella prima di queste sezioni vengono ricostruite con grande acribia filologica (al punto che sono state replicate anche le dimensioni degli spazi originari) le principali esposizioni personali che Pascali realizzò in vita. Partendo dalla mostra alla Galleria La Tartaruga nel 1965, con le sue tele centinate che, se da un lato ancora risentono dell’influenza della Pop Art americana, dall’altro già manifestano il gusto per l’ironia e il gioco che caratterizzeranno tutto il suo lavoro, si arriva poi a quella, ormai mitica, dei «cannoni» alla Galleria Sperone di Torino nel 1966. Disponendo nello spazio una serie di armamenti militari a grandezza naturale, ottenuti assemblando e dipingendo di verde ingranaggi di motori e pezzi di lamiera e di legno, Pascali metteva in discussione con grande leggerezza ma anche con estrema sottigliezza la nozione di rappresentazione e di scultura. Un tema, quest’ultimo, che si ritrova anche nella mostra presentata, sempre nel 1966, alla Galleria l’Attico di Roma; in questo caso però dai pavimenti e dai muri della galleria sembravano affiorare frammenti di misteriosi animali preistorici e di enormi animali marini realizzati con tele bianche sagomate. Nella successiva esposizione personale presentata sempre all’Attico nel 1968, il linguaggio è ancora una volta completamente mutato, in quell’occasione l’artista utilizzò una grande quantità di pagliette di ferro unite fra di loro per dar vita a strutture sospese che ricordavano ponti fatti di corde e trappole per animali. In quella che sarà la sua ultima personale, la sala alla Biennale di Venezia del 1968, a fare la sua comparsa fu invece la pelliccia sintetica, altro materiale tipico di quel periodo, con cui Pascali realizzò alcune delle sue sculture più note, come La vedova blu (nella foto).
La centralità dei materiali e l’abilità con cui l’artista riusciva a trasformare in maniera sorprendente gli elementi presenti nella quotidianità della società dei consumi – basti pensare a quella straordinaria invenzione che sono i Bachi da setola – e il modo con cui Pascali utilizzava la fotografia per mettersi in scena a fianco delle proprie opere, così da offrirne nuove letture, sono affrontati nelle due sezioni successive che indagano il peculiare arcaismo con cui l’artista si contrapponeva al mondo plasmato dal design industriale.
Il percorso espositivo si chiude con un’operazione di contestualizzazione in cui le opere di Pascali sono affiancate a quelle di artisti con cui aveva partecipato ad alcune delle mostre collettive più significative di quegli anni che segnarono la nascita dell’Arte Povera, movimento di cui è considerato oggi uno dei principali esponenti.
Amante del teatro, della metafora e dell’illusione più che della tautologia, non a caso si era diplomato in scenografia, Pascali rifuggiva tuttavia da ogni identità fossilizzata perché, come aveva affermato in un’intervista con Carla Lonzi «l’importante è fare sempre delle cose nuove, non nuove per gli altri, ma nuove per sé stessi». Verrebbe allora da dire che l’arte di Pascali è troppo «ricca» per essere riassunta nell’etichetta poverista. Ricca di invenzioni, di materiali, di ironia, di leggerezza e anche di contraddizioni, ma forse è proprio per questo che ci appare ancora oggi così affascinante e fresca.