azione.ch
 



Storia ed emozioni teatrali in difesa di una memoria collettiva

Inarrestabile la 24esima edizione del Festival di narrazione
/ 02/09/2024
Giorgio Thoeni

Inarrestabile è la notte: il titolo della 24esima edizione del Festival  internazionale di narrazione di Arzo accoglie come un mantra unendo lungo un suo filo contenuti e riflessioni che hanno accompagnato le proposte del suo cartellone dal 22 al 25 agosto, in particolare quelle destinate a un pubblico adulto. 

La manifestazione, da poco conclusasi con successo, quest’anno ha voluto rinsaldare i rapporti con il pubblico degli esordi, concentrando la sua offerta nelle corti e nelle vie del villaggio in cui è nata e sul parco allestito nel giardino del Castello con una programmazione orientata a orari tardo-pomeridiani e serali. Un modo per evitare le roventi temperature agostane ma anche, pensiamo noi, per razionalizzare l’offerta in tempi finanziariamente non facili per chi fa cultura in modo originale come il Festival di Arzo: un esempio da salvaguardare. 

Ne hanno approfittato le famiglie con i bambini (piccoli e piccolissimi) riuniti numerosi per assistere a storie narrate da valenti raccontatori, ma ne ha anche approfittato il pubblico che conosce la spinta della manifestazione su tematiche importanti e sempre attuali che ci portano a un presente immerso in problematiche complesse, difficili, sensibili o drammatiche, unite dalla Storia – con la S maiuscola – quella che non si deve dimenticare, quella che non ha confini geografici ma che subiamo comunque di riflesso. 

È la garanzia subliminale di un Festival che a ogni ripresa ospita sul palco personaggi e spettacoli che non sempre vengono inseriti nei circuiti ufficiali. Talvolta sono espressioni marginali che però rappresentano il ruolo civile del teatro, un atto politico nel suo significato più alto e nobile che aiuta a comprendere le dinamiche sociali vincendo l’oblio e contrastando la banalità. 

Dunque, anche quest’anno la festa teatrale nei pomeriggi di Arzo si è arricchita di folletti mangioni, fantasmi, pirati, streghe, castori ma anche con le fiabe a colori dell’effervescente Monica Morini, mentre all’imbrunire si liberavano tematiche impegnate, alcune forse dimenticate o troppo distanti, altre finite nel vortice della ricorrenza mediatica che porta all’indifferenza verso l’emigrazione, la diversità, il lavoro, l’emarginazione, l’ingiustizia. 

Ne è meritoriamente consapevole il comitato del Festival, a partire dal suo instancabile presidente Marco Mona con il direttore artistico Natalia Lepori  insieme con i giovani volontari che ogni anno contribuiscono alla riuscita di quattro intense giornate in un piacevole clima di famigliare accoglienza. 

Fra gli spettacoli che hanno illuminato le notti inarrestabili di Arzo scegliamo dapprima quello che ha inaugurato il Festival con il ritorno del Premio Ubu Mario Perrotta con Come una specie di vertigine. Il nano, Calvino, la libertà: un fiume vorticoso di parole, quasi uno stordimento. Ma che bravura e che capolavoro sulla parola. Perrotta prende le mosse da La giornata di uno scrutatore, un romanzo breve di Italo Calvino che racconta l’esperienza vissuta dall’autore come scrutatore al seggio elettorale creato presso il Cottolengo di Torino, un universo di umanità sofferente e degradata, anime prigioniere di malformazioni e gravi disabilità. Un’osservazione che, da grande ammiratore dell’Illuminismo, lo porta a sconfessare la razionalità dell’uomo protagonista del proprio destino in un inno alla libertà, ciò nonostante la tragica e beffarda alterità del personaggio, un nano storpio e afasico che Perrotta fa dialogare con i protagonisti dei romanzi del Calvino Italo: così lo chiama. Come nella fuga sull’albero di Cosimo de Il barone rampante, come nelle osservazioni sul mondo avide di conoscenza di Palomar, quel nano non è lo storpio immobile nella sua disgrazia, bensì un guerriero della libertà. Perrotta ne cesella la lingua, la trasforma in endecasillabi tra rap e trap in un gioco di rime sull’eco del teatro-canzone o seguendo un costrutto semantico libero, frutto di un rigoroso esercizio. Il cuore del nano batte per una libertà sognata, incastonata fra le note de Il mondo di Jimmy Fontana che siglano lo spettacolo. 

Quella di Perrotta fa il paio con un’altra teatralità originale, quella di Lei Lear di e con Chiara Fenizi e Julietta Marocco, fra le più efficaci proposte di questa edizione del Festival. Vincitore del Premio PimOFF per il teatro contemporaneo 2021, lo spettacolo vede in scena le due autrici-interpreti (nella foto) in un duetto recitato interamente all’unisono, da loro definito cacofonico, sulla domanda di fondo: che cosa potrebbe succedere se due personaggi shakespeariani fossero condotti nell’universo assurdo di Beckett? Le sorelle Goneril e Reagan sono le figlie malvagie di Re Lear. Pettegole, ambiziose, misteriose, assurde. Come gemelle siamesi parlano e si muovono a specchio attorno al nonsense, al paradosso, a una cattiveria costruita e dilatata. Se alla lunga ci si attende che accada un coup de théâtre loro persistono fino all’ultimo con la loro scelta stilistica: eccellente, decisamente particolare e difficile. 

Si ride un po’ meno con Oscar De Summa per L’ultima eredità, il racconto di un ritorno a casa per l’ultimo saluto al padre morente. Un’opera di scavo nel labirinto della coscienza di un figlio che riscopre l’amore verso il padre fra ricordi scoprendo una consapevolezza inedita, quella che solo la morte di una persona vicina può sprigionare mentre prima era solo latente in un passato avvolto da ingombrante normalità. De Summa è bravo ed efficace, riesce a passare da un registro leggero fino a suscitare le emozioni più intime e profonde. 

Il Festival ha affrontato anche temi come l’emigrazione, la politica, la storia. Come con il teatro di Giuseppe Carullo con Umanità Nuova, il racconto di una cellula anarchica calabrese attraverso i moti di Reggio e all’ombra dell’eversione fascista italiana sul finire degli anni Sessanta. O come con Ilva Footbal Club, la storia delle acciaierie Ilva di Taranto nel dramma della diossina: sessant’anni di un avvelenamento collettivo programmato all’insegna del profitto di privati con la vergognosa complicità dello Stato.